Doppia Palmira

Alla parola Palmira noi occidentali chiudiamo gli occhi e abbiamo davanti l’alba della civiltà, la città del mito, l’antica Zenobia da cui tutto cominciò. Violata, deturpata dalla furia selvaggia dell’Isis prima di essere riconquistata dall’esercito siriano con l’aiuto dei russi.

Alla parola Palmira noi pensiamo al patrimonio dell’Unesco e alla barbarie del Califfato. Ma c’è un’altra Palmira, basta porre la stessa domanda a un siriano e arriverà la risposta: laggiù c’era la più sconosciuta e feroce prigione del dittatore Assad. A pochi chilometri dalle vestigia (buona parte trovate ancora intatte) migliaia di attivisti, prigionieri politici erano incarcerati e torturati, uccisi dopo un lungo strazio o lasciati morire di stenti nei budelli e nelle segrete. Tutto ciò non nel Novecento dei conflitti mondiali, ma nel 2013, mentre il mondo si domandava cosa fare di quell’indecifrabile e sanguinoso conflitto in Siria.

Così la racconta Bara Serraj dopo averla frequentata per 12 anni nel libro «Da Palmira ad Harvard». «Il linguaggio non basta per descriverla. La paura era una sensazione interna che ti faceva sentire il cuore tra i piedi e non nel petto. La paura è lo sguardo sui volti delle persone, i loro occhi nervosi quando il momento della tortura si avvicina». Quando sono entrate in città, le truppe di Assad quella prigione l’hanno trovata vuota. Mi rendo conto che non sia politicamente corretto, ma è giusto dirlo: l’Isis aveva liberato tutti i prigionieri, utilizzando il gesto come un’operazione di marketing che ha lasciato una forte impressione in tutta la Mesopotamia. Palmira, una parola e due significati. Tutto ciò non toglie nulla all’orrore per le gesta sanguinarie dei tagliagole in nero. Ma conoscere solo una mezza verità significa non conoscere niente.

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