Facce da «bail in»

C’è sempre una parola che arriva da lontano la cui traduzione è: fregatura. Negli anni Novanta fu il termine «bond» per definire il buco nero della Parmalat e il fallimento dell’Argentina che fece piangere molti italiani con titoli di quel Paese. Cinque anni fa fece irruzione la parola «spread» per farci sapere che il debito pubblico poteva diventare una leva per abbattere governi e costringere i contribuenti a fare i compiti a casa al posto dello Stato.

Quando pensavamo di esserci liberati anche da questa depravazione finanziaria, ecco incombere un nuovo accrocchio lessicale: «bail in». Letto alla genovese equivarrebbe a un epiteto scherzoso, letto all’europea non può che fare paura. Traduzione a senso: prelievo forzoso dai depositi e dai conti dei clienti (oltre i 100.000 euro) in caso di dissesto dell’istituto di credito. Se in queste settimane di Borsa le banche italiane sembrano il peschereccio di George Clooney dentro la tempesta perfetta è per colpa sua, del «bail in». Se Renzi sale a Bruxelles tre volte alla settimana è per mitigare gli effetti del «bail in». Se l’opposizione torna a mordere è perché ha intuito la fragilità del premier sulle conseguenze del «bail in». Come al solito, trattasi di recita collettiva perché a Bruxelles tutti votarono a favore tranne i grillini e Fratelli d’Italia. La Lega si astenne facendo la figura del «chi tace acconsente».

Nel secondo round, l’estate scorsa in Parlamento, fu recepito un pacchetto di regole comunitarie con la legge tossica in pancia. Nessuno se ne preoccupò più di tanto, ancora obiezioni da parte dei Cinquestelle e di Forza Italia, poi tutti in vacanza. Ora è allarme rosso, vorremmo un’introduzione «mitigata», siamo al terrore e diamo la colpa a Bruxelles. Ma la fregatura arriva da più vicino.

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