Il mento di Gimondi

Genitori sportivi o genitori hooligans? Metti una mattina in Confindustria Bergamo a trattare un argomento così spinoso e a trovarlo semplice, com’era semplice un fischio di Paolo Casarin in un derby, come appariva semplice la pedalata di Felice Gimondi in fuga.

Due fuoriclasse ti sanno spiegare tutto perché hanno vissuto tutto. È vero che i genitori sono apprensivi, fragili, molesti, irritanti, ma è anche vero che senza quell’ingombrante generosità (negli spostamenti, nel pagare le quote e le pizze) molti club chiuderebbero i battenti. E allora? «E allora il gioco è tolleranza. Il problema dello sport dei nostri bambini non sono i genitori, ma le troppe regole e la pretesa di farne il centro del loro mondo», parola di Casarin, che di regole ha vissuto. Gimondi annuisce: «I ragazzi che fanno sport devono essere liberi di andare in fuga e di seguire l’istinto. Ingabbiare l’istinto a 12 anni significa ingabbiare il talento».

Ma il Grande bergamasco non ha finito e per delineare il perimetro del genitore si affida a un ricordo lontano. «Ero già un campione, stavo vincendo un Giro. Alla fine di una tappa sono tornato in albergo, doccia, massaggi, riposo. Quando sono sceso nella hall e ho guardato fuori ho visto mio padre seduto sul muretto di fronte. Mi aspettava per salutarmi ma non osava salire. Gli ho detto: papà, se non hai il diritto di entrare tu chi vuoi che ce l’abbia?».

Ha il mento che trema e gli occhi umidi, l’immagine di 50 anni fa lo sfiora come una carezza. Genitori e figli, non serve altro. Mentre noi arranchiamo sui nostri sandali, dall’alto del Tourmalet della vita Gimondi vede un orizzonte vasto e limpido. Giusto, il campione è lui.

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