Il Paese del post

Autorevolezza, buon senso, carisma, diplomazia, una robusta esperienza politica e, tanto per gradire il necessario prestigio internazionale.

Nessuno ha accennato alla bella presenza, che spesso imperversa negli annunci economici, ma tutti in queste settimane hanno detto la loro sul profilo ideale del nuovo presidente della Repubblica. Un ruolo non da poco (il riferimento non è all’inflazionata polemica sul costo dell’inquilino del Quirinale): molti i chiamati, uno solo l’eletto. L’impressione è che in questa massa di fini suggeritori ci sia l’emblema di un Paese che più che apprestarsi ad una motivata svolta, pare più incline all’ennesimo giro di valzer, fin che la barca va. Le necessarie virtù e i sacrosanti doveri sono sempre e solo quelli degli altri, a cominciare dal presidente. Per sé si preferiscono i diritti che, come diceva Luciano Violante, paiono piuttosto personali desideri.

È un’Italia che promuove e boccia più alla tastiera che in piazza: c’è anche il diritto alla comodità. Sul piedistallo dei sondaggi sale il populista di turno, in piena sintonia con gli umori, ma poca dimestichezza con valori e responsabilità. A colpi di clic e tweet siamo tutti Charlie, indignati, santi e poeti, con l’effetto collaterale di qualche bufala dal moltiplicatore incorporato. L’Italia del post comunismo e del post berlusconismo rischia di essere semplicemente l’Italia del post, su Facebook. Un’Italia ipnotizzata dal display, fotografata 40 anni fa da Umberto Simonetta: «Sta per venire la rivoluzione e non ho niente da mettermi». Presidente, faccia lei. Noi stiamo...navigando, come Schettino

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