L’Italia del toner

di Giambattista Gherardi
Per una volta torno in banca. Anni fa abitavo sopra la filiale e non era un’incombenza impossibile. C’era il fastidio di qualche coda nei giorni dell’Ici, ma da giovane impiegato versare l’assegno dello stipendio aveva un retrogusto di sogni misto ad orgoglio.

Per una volta torno in banca. Anni fa abitavo sopra la filiale e non era un’incombenza impossibile. C’era il fastidio di qualche coda nei giorni dell’Ici, ma da giovane impiegato versare l’assegno dello stipendio aveva un retrogusto di sogni misto ad orgoglio. Poi è arrivato internet e tutto è diventato ancora più facile. Ho pagato una bolletta alle due di notte.

Grazie ad una (meritata) multa presa fra Empoli e Firenze ho scoperto che posso pagare e stampare un bollettino postale direttamente dal tavolo della cucina, senza mollare la presa sul marmocchio che tenta di eludere la scheda assegnata dalla maestra. Tutto è cambiato, tutto più veloce, ma da qualche parte, in qualche modo, la burocrazia resta in agguato, trovando nella privacy una formidabile alleata. Succede di dover richiedere l’Isee, la certificazione del reddito: comporta un viaggio nel «girone infernale» di un Centro Caaf dove la gente (quella che i politici evocano, ma non conoscono) tenta di destreggiarsi fra Cud, 730, Imu, Tasi e relative scadenze.

Per la mia richiesta serve la copia dell’estratto conto bancario. Lo stampo da internet: per dieci operazioni in croce sono la bellezza di 27 pagine in perfetto burocratese. Due ore dopo passo in filiale: dopo decenni devo fare un versamento in contanti. La giovane cassiera, porgendomi un tablet, mi spiega che possiamo evitare la ricevuta cartacea: arriverà direttamente nella mia mail. Viva i giovani mi dico, alla faccia di quelle 27 pagine. Ma per abilitare la mia firma e confermare la mail, serve una firmetta su un contrattino: una quindicina di pagine in triplice copia stampate fronte retro. Ci risiamo: più che cambiare l’Italia, cambiamo il toner.

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