Quaranta a trenta

Gesti bianchi. Ci si rilassa guardando il torneo di Wimbledon in Tv. Il tennis è uno sport nervoso, visto da bordocampo è adrenalina pura, uno scontro fisico fra atleti che usano la racchetta come una mazza, con quella pallina sparata alla velocità del missile, che ti mette l’ansia.

In Tv no, tutto è attutito e l’unico fastidio è determinato dalla macchia di erba secca tendente al terrigno che si forma dopo dieci giorni di partite e rompe l’armonia verde del centrale di Wimbledon. Quaranta a trenta.

Poco prima che arrivi il sonno torna alla mente un dettaglio: 40 anni fa (le rievocazioni sono il post-it della memoria) qui vinse un atleta nero. Il primo e l’unico nero, Arthur Ashe. Giocava a tennis con la grazia di Riccardo Muti quando dirige Wagner (la morte di Tristano e Isotta) ed era un signore. Era, perché ci ha lasciato nel 1993 dopo avere contratto l’Aids con una trasfusione.

Battè in finale Jimmy Connors, il numero uno dei bombardieri, in una partita epica: da una parte Hulk, dall’altra Nureyev. I due si detestavano. Connors aveva da poco querelato Ashe che lo aveva criticato per aver preferito un’esibizione a suon di dollari alla convocazione in nazionale per la coppa Davis.

Lo scrittore John McPhee, che scrisse la cronaca del match per il New York Times, concluse l’articolo così: «Ashe ha vinto per manifesta superiorità... culturale». Qualche giorno dopo Connors ritirò la querela e lo ringraziò per la lezione gratis. Con quella palla di capelli afro in testa era davvero unico, Arthur Ashe. Poco prima di morire disse: «Non mi sono mai chiesto perché mi sia toccato l’Aids come non mi sono mai chiesto perché mi sia toccato vincere a Wimbledon: ho pensato che fosse la volontà di Dio». Campioni per sempre.

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