Il bergamasco Giorgio Brivec:
«Vi tracconto il mio Enzo Ferrari»

di Roberto Belingheri

«Mi chiamava: "Brivec, la aspetto". E quando chiamava lui, bisognava correre». Correre, com'era nel sangue di Enzo Ferrari. Sì, lui. Quel signore che adesso nell'immaginario di tutti ha il viso corrucciato sotto gli occhialoni neri.

di Roberto Belingheri

«Mi chiamava: "Brivec, la aspetto". E quando chiamava lui, bisognava correre». Correre, com'era nel sangue di Enzo Ferrari. Sì, lui. Quel signore che adesso nell'immaginario di tutti ha il viso corrucciato sotto gli occhialoni neri. Ma che invece dovremmo ricordare al volante di una Ferrari, intento in un «traverso». Oppure nella sua fabbrica, da dove uscivano i bolidi di Maranello. Bolidi che Ferrari - di cui sabato ricorrerà il 114° anniversario della nascita - non vedeva più tanto tali, dopo il passaggio del Cavallino sotto l'ala protettrice della Fiat. E per essere sicuro che le nuove Ferrari non fossero «carrette ben vestite», Ferrari tirava su il telefono. Brivec, la provi lei, poi mi faccia sapere.

Brivec, riavvolga il nastro. Dove e come comincia la sua storia d'amore con le auto?
«Dobbiamo andare in via don Bosco, alla Malpensata, dove negli anni '20 mio nonno impiantò una fabbrica di mattoni refrattari. La prima in Italia».

E le auto che c'entrano?

«Andavo lì, e complice l'autista già a 8 anni provavo la Lancia Aurelia del nonno. Il rumore di un'Aurelia mi fa ancora impazzire».

E il grande salto?
«Ho sempre frequentato le corse, fin da ragazzino quando ho cominciato a correre in go-kart. Poi, nel 1971, alla mille chilometri di Monza ho conosciuto Mike Parkes».

Che era stato pilota Ferrari in F1...
«Sì, diventammo amici e ci incontravamo nelle gare in salita, cui partecipavo con una Fulvia HF e poi con una Dall'Ara».

Ma dalle gare in salita come si arriva a Enzo Ferrari?
«Si arriva perché un giorno Mike mi invita ad accompagnarlo in Liguria con una Ferrari Daytona. E lui che fa? Me la fa guidare».

Un invito a nozze.
«Aspetti. Arriviamo sulla Serravalle e troviamo la pioggia. Tanta pioggia. Ma zero traffico, così ho scatenato i cavalli imbizzarriti della Daytona».

Su quelle curve si fa fatica...
«Infatti. Trovo una curva tosta, e la Daytona si mette di traverso, perpendicolare. Parkes non fece una piega, ma disse tutto a Enzo Ferrari: "Quel Brivec sul bagnato guida come un angelo"».

È così che ha conosciuto Ferrari?
«Pressappoco sì. Arriviamo, Parkes mi presenta, racconta della Daytona: "L'ha guidata così al limite che più in là si va nella bara", gli disse».

E Ferrari?
«Niente. Gli dissi che era una macchina bella e impossibile, e non solo questo».

Che impressione le fece Enzo Ferrari? Era già una leggenda vivente…
«L'ho conosciuto e frequentato dal 1973 al 1988. E per capirlo davvero, bisognava conoscerlo a fondo. Il Ferrari privato era una persona davvero molto particolare. Il Ferrari pubblico aveva i suoi puntigli, viveva di certe battute. Un uomo stimolante».

Che la Ferrari la voleva come diceva lui. Cosa doveva avere sotto il cofano la Ferrari di Ferrari?
«Parto dalla fine. L'ultimo anno, era il 1987, mi dice: "Visto che ha provato tutte le Ferrari, come la vedrebbe la Ferrari del futuro?". Io gli scrissi quattro pagine dettagliatissime, con qualche disegno. Era rimasto impressionato, ma la produzione della Ferrari non era più in mano sua e non se ne fece niente».

E cosa c'era in quel progetto?
«Due tratti fondamentali: 12 cilindri, velocissima, leggera e confortevole. E il motore anteriore, da gran turismo sì, ma estrema. Quel progettino sarebbe ancora valido, con due turbo. E secondo Ferrari, le Ferrari vere dovevano essere minime nel peso, ma ovviamente con una solidità a prova di bomba».

Ma lei, da bergamasco, tutta questa competenza sui motori da dove la tirava fuori? È mica di Maranello…
«Beh, prima le corse, poi con la Stratos, il primo collaudo importantissimo, che mi affidò proprio Parkes. E ho conosciuto da vicino anche l'ingegner Dall'Ara, l'uomo che ha fatto la Miura Lamborghini…».

Quindi lei è piaciuto a Ferrari perché non si presentava con tanti titoli, ma con tanti chilometri…
«Il collaudatore si forma così… O entri in una casa automobilistica e cresci lì, o parti da solo con la tua sensibilità. Ferrari adorava i piloti non costruiti, ma di talento naturale al massimo. Per lui non era Lauda il top, per fare un esempio».

Poi per chi ha lavorato?
«Case automobilistiche tedesche».

Ma il grande amore è rimasto la Ferrari?
«Non la Ferrari: Ferrari».

Distinzione sottile ma sostanziosa.
«Quando ho conosciuto Ferrari l'azienda era già della Fiat. E i rapporti Ferrari-Fiat non sono mai stati idilliaci. E poi mi chiedeva: "Ma le Ferrari di oggi sono Fiat di lusso o no?"».

E lei che gli diceva?
«Il nostro rapporto era di una franchezza assoluta».

Sì, ma cosa gli rispondeva?
«Che erano Fiat di lusso».

Però.
«Non avrebbe voluto consulenti esterni se non ci fosse stata una franchezza di quel tipo».

Lui aveva bisogno di lei perché non si fidava della Fiat?
«Voleva capire se le Ferrari potevano avere ancora il loro spirito originario. Questo perché c'erano tanti segnali che lo facevano preoccupare. La componentistica interna, i motori quattro valvole... In fondo, Torino non ha mai investito abbastanza per conservare la Ferrari di Ferrari».

Ci faccia un esempio di questa franchezza. Come gli descrisse, per esempio, la Ferrari Daytona?
«La prima volta gli dissi in faccia: telaio inadeguato, volante come quello di un camion».

E lui?
«Sobbalzò. Ma siccome c'era lì Parkes che era il miglior collaudatore che aveva avuto, e Parkes annuiva, Ferrari non replicò. Ma occhio: la Daytona non era una schifezza: era il miglior motore e la miglior estetica al mondo nel settore delle gran turismo. Certo, non gli nascosi i difetti».

Poteva prenderla a calci, visto il caratterino dell'ingegnere. Invece?
«Ma io davo spiegazioni, non solo giudizi. Per esempio, gli parlai male anche dei freni, ma argomentando. Certo, con i miei toni gli spiegai che sul bagnato il primo colpo sul freno della Daytona serviva solo a pulire i dischi…».

Ma quando la Ferrari ha perso identità?
«L'ultima Ferrari vera è la F40. Se cerca tra i collezionisti vedrà che le diranno la stessa cosa: degli ultimi 25 anni la F40 è l'ultima vera Ferrari al 100%».

Ma come funzionava nel dettaglio il suo incarico di consulente segreto?
«L'auto da testare me la procuravo io tramite commissionari amici, oppure se ne interessava Ferrari, sempre in segreto».

Ma la testava prima o dopo l'uscita?
«Dopo. Lui era fuori dalla produzione, e una volta uscito il modello voleva una valutazione».

E lei dove andava a provare al limite le Ferrari?
«In strada e in pista. Sempre con una certa cautela».

E lo sapeva solo Ferrari?
«Di fatto solo lui. Nessuno nel "giro Fiat"».

Ci andava di notte o di giorno?
«Anche di giorno».

Non c'erano i punti della patente…
«Mi hanno beccato una sola volta, a Carpi. Ma non raccontiamola…».

No, dai, raccontiamola.
«La velocità era esagerata».

Ma sì, la dedichi a Enzo Ferrari, quella multa. Anche lui amava la velocità. Ce lo racconti visto da vicino. È vero il mito delle sue sfuriate?
«Ne ho vista una sola. Arrivo a Fiorano, fine anni '70. Sulla Formula 1 di Villeneuve avevano messo l'etichetta Fiat senza avvisarlo. Ho sentito di tutto. E gridava a me: "Mi dica lei, Brivec, mi dica lei!". Incontenibile».

Ma lui aveva la percezione che sarebbe diventato una leggenda?
«Sì, ma le sue cose private le raccontava solo a Piero Barilla e a Roberto Rossellini. Diceva: "A loro potrei raccontare anche le cose inconfessabili"».

Un uomo comunque lontanissimo dallo stile di oggi della Ferrari.
«A me sembra che oggi ci sia una distanza abissale. Soprattutto in Formula 1, oggi la Ferrari ha politicamente un peso minimo. Quando c'era lui, gli altri non aprivano bocca».

Ma al di là della Formula 1, oggi la Ferrari non sta diventando un simbolo un po' kitsch?
«Rimane valida la definizione dell'epoca: una Fiat di lusso. Definizione che, in verità, era di Clay Regazzoni».

Oggi Ferrari che macchina avrebbe?
«Raccontava che aveva avuto la Aprilia, le Peugeot. Delle sue, si sarebbe fermato alle F40. Adorava auto velocissime, ma comode. Non accettava l'idea che per andare forte bisognasse vivere da disperati nell'abitacolo. Certo, la F40 non era delle più comode, ma la adorava».

Idea che condivideva anche lei?
«Assolutamente sì. Quando nell'80 seppe che avevo comprato una Ferrari, mi chiese che auto avrei voluto in alternativa. Gli risposi la Porsche, che poi ho avuto a lungo. Sorrise, mi parve che fosse d'accordo».

Amava la velocità a prescindere dalla marca…
«Amava la velocità, e quelli che lui chiamava i "traversi", in dialetto romagnolo».

Sarebbero…

«Le sbandate controllate. O incontrollate. I brividi. È un'emozione che ha sempre voluto assaporare».

E come vedeva le macchine della concorrenza?
«Le apprezzava, in privato. In pubblico mai».

Chissà quanti aneddoti in una vita…
«Le racconto quello di Pertini. Da presidente della Repubblica, Pertini arriva a Maranello e Ferrari lo riceve. Fa gli onori di casa, poi con una scusa tremenda lo lascia nelle mani di altri. Ogni 20 minuti Pertini chiedeva di lui, ma non si fece più vedere».

E perché questo?
«Mi disse: "Ma sì, Brivec, vuole che alla mia età io debba avere a che fare con una persona noiosa"?. All'opposto, adorava il re di Spagna, Juan Carlos, che passava ogni tanto a trovarlo. Erano amicissimi».

Senta, ma dopo tanti anni la chiamava ancora con il cognome?
«Mi diceva: lei mi chiami Ferrari e non ingegnere, altrimenti io la devo chiamare dottore. Così, ci chiamavamo Ferrari e Brivec».

Ma si è mai «offeso» per uno dei suoi appuntini?
«Forse quando gli ho detto che la Daytona non stava in strada. Ma neanche più di tanto».

E il complimento che gli fece più piacere?
«C'era una frase che lui ripeteva sempre. "Vede, Brivec, io e lei siamo uguali, abbiamo la pelle delicata". Intendeva dire che riuscivamo ad apprezzare le sfumature. Me l'avrà detto mille volte».

Questo perché voleva Ferrari perfette?

«Assolutamente. Era attentissimo all'immagine esterna della Ferrari, con l'ossessione che non fossero Fiat di lusso».

Perché della Fiat lui pensava…
«Che facevano grandi numeri. E non era un gran complimento. Gliene racconto un'altra».

Prego.

«Un giorno mi chiama: "Brivec, mi faccia compagnia domani a colazione. Arriva un nuovo dirigente della Fiat, venga giù, così lo pesiamo assieme". In questa parola, "lo pesiamo", c'è tutta la sua personalità».

Insomma, con la Fiat non è mai stata aria…
«Pensi, un anno mi invita alla conferenza stampa annuale e mi dice: "Sarà una conferenza calda". Arriva una giornalista e gli chiede: "Come si sente con i padroni della Fiat?"».

Poverino.

«Ferrari si tolse gli occhiali, la fissò. Poi disse: "Non ho mai avuto padroni, non mi hanno mai comandato neanche mia madre e mio padre". Muti tutti, un gelo totale. Ferrari era così».

Ma non ha mai avuto la tentazione di riprendersi la Ferrari?
«E come faceva… ma non sa quanta fatica gli costò andare a Torino a firmare la cessione?».

Immaginiamo.

«Partirono da Maranello lui, l'autista Peppino, il figlio e il factotum Franco Gozzi. Tutti su una 330 GT vanno a Torino a firmare la cessione. Mi disse: "Metà Fiat mi ha odiato, perché entriamo e mi dicono che l'avvocato aspettava all'ottavo piano. E io: all'ottavo piano ci andate voi. Io non prendo ascensori e non salgo otto piani a piedi". Lui non prendeva né aerei né ascensori. Aveva tutti gli uffici al piano terra. E a Modena, viveva in piazza Garibaldi. Tutto suo il palazzo, ma lui stava al piano terra».

Torniamo alla firma di Torino.
«Successe il caos, il panico. Lo staff approntò al volo una saletta al piano terra per fare il tutto, perché Ferrari era lì e puntava i piedi. Alla fine fu l'avvocato a scendere al piano terra per firmare, con tutto il seguito».

Umiliati.
«Sì, ma nonostante questo ebbe un ottimo rapporto personale con l'avvocato. Solo con lui. Anche perché gli aveva comprato un mare di Ferrari. Non particolarmente buoni, invece, i rapporti con il resto della Fiat».

Sapeva riconoscere gli amici, diciamo.
«Pensi che quando creò la scuderia molte banche gli negarono i finanziamenti. Glieli concesse il Banco di San Gimignano. Beh, lui non l'ha mai abbandonato. Gli si presentavano le migliori banche del mondo? Le mandava a quel paese. La sua banca ce l'aveva già».

Non si è mai trasferito a Maranello. Casa sua rimaneva Fiorano?
«Certo, diceva: "Venga a Fiorano, Brivec, qui è casa mia e non devo rendere conto a nessuno"».

È lì che gli consegnava i rapporti?
«Scritti, consegnati di persona».

Li leggeva, e poi?
«Una volta mi disse: "Ma Brivec, non le va mai bene niente". Avevo criticato i fanali posteriori della Testarossa, che Pininfarina aveva fatto tutti rettangolari, mentre per me dovevano essere tondi. Quando poi li fecero tondi, me lo disse: "Non lo sanno, ma le han dato ascolto…"».

Ma alla fine, qual è l'auto migliore che ha mai guidato?
«Sicuramente la mia Porsche. Calcolando confort, affidabilità, potenza, tutto. E considerando i tempi, la Gto del 1962. Un capolavoro. E poi, la Miura Lamborghini di Dall'Ara».

La Formula 1 si è rimessa in moto. Lei è anche un grande esperto di corse. La Ferrari potrà rivincere il Mondiale?
«Negli ultimi 18 anni in Formula 1 per me ci sono stati due soli grandi ingegneri telaisti. Rory Byrne che ha vinto con Benetton e ha vinto tutto in Ferrari, e Adrian Newey, progettista della RedBull. Newey è tuttora in Redbull, Byrne per quel che ne so io in Ferrari è ridotto a un ruolo da consulente. Quindi...».

Ma i due piloti migliori chi sono?
«Vettel e Alonso».

Brivec, sabato sarebbe stato il compleanno di Enzo Ferrari. Cosa gli vorrebbe regalare?
«Un traverso, come lo chiamava lui. Un altro traverso sui tornanti dell'Abetone. Io e lui, con una F40».

Perché, non l'avete mai fatto, magari in gran segreto?
«Queste sono cose nostre, le uniche che non si possono raccontare».

Roberto Belingheri

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