Quel sogno di normalità
spezzato dal Viminale

di Pier Carlo Capozzi
Amarcord le trasferte per seguire l’Atalanta. Perché ci sono state. Perché torneranno ancora. Lo zio Carlo aveva predisposto tutto, c’era solo da seguirlo e stargli vicino.

Ricordi dolci di ragazzo: giù dal letto presto, c’era da andare a Messa, in San Lazzaro, la bandiera appoggiata sotto l’acquasantiera, in cerca di uno spazio stabile e, magari, di una benedizione propizia. Poi a piedi fino in centro, con l’emozione del pullman assegnato e la speranza di essere in tanti.

E il viaggio, condito da discussioni a non finire e qualche espressione colorita che faceva sobbalzare lo zio. E l’arrivo a destinazione. Milano, un sacco di volte con un panino durante il tragitto, oppure Mantova, ma anche trasferte fino a Genova, e allora ci si fermava a pranzo. Come quella volta a Vicenza, novembre (ma dai!) ’66, quando il pullman ci portò su al ristorante «Al Pellegrino», a fianco del Santuario di Monte Berico, di cui ricordo la sollecitudine della cameriera affinché usassi la stessa forchetta anche per il secondo. E così si stava insieme, grandi e ragazzi, e si fraternizzava.

Non lo sapevamo, ma la trasferta per seguire l’Atalanta era una specie di terapia. Meglio se si vinceva, come quella volta a Vicenza, con un rigore di Pelagalli e i tifosi di casa contenti neanche un po’. Accompagnare l’Atalanta lontano da Bergamo era soprattutto l’occasione per una domenica di svago, di nuove esperienze gastronomiche, per avvicinare località diverse, per allargare l’orizzonte.

Per questa ragione, appena indicato dal mio giornale nel direttivo degli Amici, il primo intervento fu dedicato al ripristino di questa attività, ferma ormai da troppo tempo, praticamente dall’uccisione dell’ispettore Raciti nel 2007. Si doveva tornare in trasferta, intesa come gita sociale, con tanto di pranzo e giro turistico della città. Mi guardarono sconsolati, sembrava ormai diventata un’impresa impossibile: scorta della polizia, controlli e perquisizioni, veti dei prefetti, uscita dallo stadio ad orologeria. Il danno procurato da chi la buttava in guerra ricadeva ormai anche sui tifosi perbene. Perbene e rassegnati.

Ma in questi mesi quell’idea che sembrava folle, piano piano, s’è fatta sempre più largo. E venti giorni or sono Elisa Cucchi, consigliera degli Amici e al vertice delle «Tigri» di Parre, mi ha scritto, orgogliosa: «Ti sto facendo un regalo, insieme a Paolo Tintori: faremo la trasferta ad Empoli come la desideravi, e ti mando in anteprima il menù che abbiamo concordato per il pranzo».

Ecco, signor ministro dell’Interno, cosa ha mandato in frantumi firmando quella condanna di tre mesi. Un sogno di normalità che si stava realizzando, un barlume di tranquilla speranza in un mondo di violenti, la possibilità di riprenderci quei valori di appartenenza sportiva in cui crediamo.

Possiamo capire tutto. Il momento truce che trasforma un dopopartita in una guerriglia e la sacrosanta voglia di estirpare un male incancrenito. Ma mischiare gli stracci con la seta questo no, non lo possiamo permettere.

Lo dobbiamo a quei padri e a quegli zii che ci hanno portato all’Atalanta e in trasferta. Una bella storia che vorremmo continuare a trasmettere ai nostri figli e ai nostri nipoti.

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