Le storie dimenticate / Valle Seriana
Domenica 22 Settembre 2013
Le leggendarie spade di Gromo
Fucine cancellate in pochi minuti
Accadde oltre tre secoli fa, era il primo di novembre del 1666: un'alluvione terribile si scatenò sul territorio di Gromo, il torrente Goglio ruppe i suoi argini, travolse ogni cosa, distrusse e seppellì per sempre la fiorente industria delle lame. A quel tempo, Gromo era, insieme alla spagnola Toledo e alla tedesca Solingen, la capitale europea delle armi bianche. Lo era da almeno due secoli. O forse anche da prima, addirittura dal tempo dei Celti, degli Etruschi e poi dei Romani.
Una stele ritrovata a Clusone e oggi al Museo archeologico di Bergamo parla di un tale Marcio Probo «custode delle armi»... Oggi di quell'industria non rimane più niente, soltanto i documenti, il ricordo. Un museo è stato avviato nel 2004, un museo delle armi di Gromo che trova spazio nel palazzo del Comune, nella suggestiva piazzetta del paese. La collezione è stata alloggiata nell'antica sala delle armi restaurata per l'occasione: sotto l'intonaco sono apparsi gli affreschi che raffigurano lame, spade, scene di elfi nel bosco.
Dice il responsabile, Andrea Andreoletti: «È un esempio unico in Italia, è l'unica sala delle armi i cui affreschi sono stati salvati e riscoperti». Era il primo di novembre di trecento e quarantasette anni fa. Raccontano i documenti che in quel giorno sopra Gromo si scatenò il finimondo. Pochi giorni dopo l'arciprete di Clusone, Alessandro Ghirardelli, in una lettera al vescovo di Bergamo, Daniele Giustiniani, scrisse: «Il giorno 4 del mese corrente, utilizzando una cavalcatura, mi sono recato sul luogo dove scorre il torrente Goglio... Colà giunto trovai, con orrore, che lo stato dei luoghi era stato sconvolto...».
L'arciprete scrisse che il primo di novembre alcuni pastori videro salire sopra la valletta di Novazza un improvviso denso vapore che «velocemente dilatandosi andava a coprire e a distruggere il torrente Calia» (Goglio). Al vapore si accompagnò un vento fortissimo, «quasi il soffio di quell'orrendo mostro, che stava provocando l'orribile catastrofe. Si videro proiettati in aria molti e molti degli abitanti, divelti dalla radice i boschi e una pioggia di macigni, talmente grossi che nemmeno i buoi avrebbero potuto smuovere, ricadeva dal cielo verso terra».
Ma che cosa era accaduto lungo il corso del torrente Goglio? Il sacerdote ritiene di dovere dedurre una profonda verità dall'accadimento: «Ciò che è successo è stato permesso da Dio, attraverso un evento naturale, per ricordare al Mondo quanto tremendo sarà quel Giudizio, che interesserà tutto l'universo perché promesso dall'Onnipotente».
Spiega Enzo Valenti, corrispondente del nostro giornale ed esperto di storia locale: «Con molta probabilità lungo il corso del Goglio si era formato uno sbarramento naturale, una sorta di diga. Per ragioni sconosciute questo sbarramento cedette di schianto e una grande massa di acqua e fango si abbatté sulla valle, strappando e distruggendo ogni cosa, anche le fucine, i magli, la spina dorsale della produzione di lame e spade. Quell'industria non si riprese più, forse mancarono le forze economiche, forse ci furono altre ragioni». Tutto scomparve, in pochi minuti.
Spiega Andrea Zanoletti: «La fama di Gromo era pari a quella di Toledo e Solingen, le lame erano firmate da produttori come Scacchi e Zuchini. A Gromo, nel 1664, per Carlo Emanuele II di Savoia, si produsse la prima armatura a prova di moschetto. Questo indica quanto fosse resistente l'acciaio di Gromo. Il minerale di ferro, un'ottima siderite scavata nelle miniere di Lizzola e Schilpario e l'ematite di Ardesio, veniva torrefatto nei forni a monte e poi portato al forno fusorio di Gavazzo, un forno di grande efficienza per quei tempi, in grado di sviluppare una temperatura adeguata a produrre la ghisa: ne uscivano delle lastre, i quadroni, del peso di due quintali ciascuna.
Questi quadroni venivano tagliati in "striscie" chiamate vergelli e i vergelli andavano nelle fucine, nei magli, ed erano lavorati a caldo dai fabbri che riuscivano a ottenere lame di acciaio attraverso la battitura che dava la forma alla lama, ma al tempo stesso espelleva le impurità minerali contenute. Il vergello lavorato si chiamava azzale, veniva immerso incandescente in un bagno con olii vegetali e raffreddato fino al punto esatto che il maestro conosceva: in quel momento il fabbro sapeva che l'azzale era arrivato alla sua massima robustezza. Infine, veniva lavorato e affilato sulla mola; quindi si passava alla lucidatura con polvere di calcina. La lama era pronta». Talmente resistenti e belle erano quelle lame che qualcuno suggerisce che persino Toledo le comprasse, per poi magari imprimere il suo marchio.
Paolo Aresi
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