Accoglienza dei migranti
Giorgio Gori: «Bisogna cambiare»

Il percorso dell’accoglienza va modificato, perché l’immigrazione ha un nuovo connotato. Le frontiere via terra dei nostri vicini sigillate hanno trasformato l’Italia da Paese prevalentemente di approdo e di transito verso altre destinazioni a luogo di permanenza. Il vecchio modello non regge più e a farne le spese sono i Comuni che ospitano. Il sindaco Giorgio Gori interviene nel dibattito che ha già visto schierarsi il suo collega di Milano («serve un nuovo piano nazionale» ha detto Giuseppe Sala) e l’ex primo cittadino di Torino, Piero Fassino (in qualità di presidente dell’Anci, con un documento al governo)

Il centrosinistra ha sottovalutato finora la situazione?

«No. Il problema è andato modificandosi. Anche se di solito non lo si dice, abbiamo tutti sperato e pensato di essere di fronte a un’emergenza anche lunga ma destinata a concludersi, come era successo in precedenza con l’emergenza Nord Africa nel 2011, quando ci fu un picco di arrivi poi rientrato. Invece ora siamo in presenza di una dinamica migratoria potente destinata a durare nel tempo perché ha delle spinte soprattutto dal continente africano in parte legate ai conflitti ma più a ragioni demografiche ed economiche che non si esauriranno nel giro di poco. Inoltre con la chiusura delle frontiere siamo diventati un Paese di destinazione. E questo cambia i numeri, le difficoltà, l’approccio complessivo al problema. In più sta venendo al pettine il nodo secondo me più rilevante: l’ambiguità con la quale abbiamo affrontato la questione dei dinieghi. Avevamo poche richieste d’asilo, ora sono diventate moltissime perché nel frattempo si sono chiuse tutte le altre strade per poter arrivare in Italia. Non ci sono più decreti flussi, non si fanno più permessi per gli stagionali per cui la richiesta d’asilo è diventata il mezzo per giungere qui. Per decidere se si ha titolo, passano in media un anno e mezzo-due. Adesso cominciamo a vedere cosa succede alla fine della catena: la grande parte di chi ha chiesto protezione a Bergamo o in Lombardia non ha i titoli. Fra l’altro all’inizio le percentuali di accoglimento delle domande erano molto più alte, per cui evidentemente è mutata anche la composizione di chi arriva e fa domanda d’asilo. Il centrosinistra deve prendere sul serio la questione anche perché diversamente, come si è visto in altri Paesi, il fatto di non affrontarla con politiche efficaci porta a problemi molto più grossi e ha riflessi politici potenzialmente devastanti».

I diniegati per legge però andrebbero rimpatriati.

«In Italia non rimpatriamo non per ignavia. Ho approfondito la questione con i funzionari della Farnesina. È un meccanismo molto complicato. Innanzitutto richiede la sottoscrizione di complessi accordi bilaterali con i Paesi d’origine, con un dare ed avere. Oggi quelli in essere sono cinque, con Egitto, Nigeria, Tunisia, Marocco e Sudan, Paesi che però non generano grandi flussi migratori. Il ministero dell’Interno valuta che per rimpatriare 10 mila migranti servono 116 voli e 20 mila poliziotti. Ogni rimpatrio assistito costa tra i 3.000 e i 5.000 euro. Così nel 2015 sono stati eseguiti 2.500 rimpatri su 18 mila firmati. Il risultato è che i diniegati, senza documenti né casa né lavoro diventeranno se non lo sono già diventati un problema di ordine pubblico. È matematico».

Come se ne esce?

«Va presa seriamente la questione dei dinieghi e capire cosa vogliamo fare. Avanzo qualche proposta, perché è facile ributtare la palla addosso al governo che peraltro secondo me sulla scena internazionale sta facendo passi giusti, come il Migration compact che nel frattempo l’Europa ha un po’ sterilizzato ma è il documento più approfondito e maturo prodotto in sede Ue. Il tema degli investimenti in Africa e degli aiuti della cooperazione internazionale è essenziale per frenare a monte i flussi, ma i risultati non sono immediati. Dove invece siamo molto nella nebbia è nella gestione dell’accoglienza in Italia».

Quali sono le sue proposte?

«Nella prima fase (identificazione dei migranti, raccolta nei centri e distribuzione sul territorio) dobbiamo allargare il numero dei Comuni che accolgono: nella Bergamasca sono 40 su 242. Quei pochi che si sono resi disponibili, non possono fare di più. Bergamo ne accoglie quasi 400, oltretutto con concentrazioni come al Gleno che non sono soluzioni ideali».

I governatori di centrodestra Maroni, Tosi e Zaia chiedono al governo la dichiarazione dello stato di ermegenza.

«Darebbe alle prefetture il potere di ordinare che nei Comuni si deve accogliere, ma non credo sia la soluzione giusta. Siamo di fronte a un fenomeno strutturale, non più emergenziale».

Quale via suggerisce per allargare il numero dei Comuni ospitanti?

«L’incentivazione: il governo deve smettere di dire che lo farà ma mettere sul tavolo cose concrete. La più chiara e consistente è lo sblocco delle assunzioni. Tutti i Comuni italiani sono in deficit di personale perché hanno avuto limiti al turnover».

Fassino chiede l’esclusione dai vincoli di bilancio delle spese per le politiche d’accoglienza.

«Non basta. Dobbiamo mettere sul tavolo altre proposte per ampliare il numero dei Comuni. Ma il punto centrale dell’idea che mi sono fatto studiando il tema e le norme, come quella tedesca, è un altro. Più degli altri Paesi europei soffriamo le condizioni del deficit demografico. Possiamo immaginare che l’immigrazione in questa fase oltre che un problema oggettivo possa essere una risorsa nel medio-lungo periodo: da qui al 2050 al netto dei flussi la popolazione italiana si ridurrebbe di oltre 8 milioni di abitanti, da 60 a 51,8, con tutti i problemi legati all’invecchiamento, alla sostenibilità del sistema produttivo e del welfare. Bisogna cambiare l’ingaggio con i migranti».

Come?

«Oggi non gli facciamo fare niente per un anno e mezzo-due, ed è diseducativo. Dobbiamo completamente cambiare: dal primo giorno in cui arrivano vanno destinati a un percorso obbligatorio con valutazioni periodiche. Chi accetta di studiare con profitto e imparare un mestiere se già non ne conosce uno, apprendere la lingua italiana e conoscere i valori della comunità in cui si trova, ottiene un permesso umanitario. Dobbiamo smettere di giudicare queste persone solo dal luogo e dalle condizioni (presenza di conflitti o persecuzioni) di provenienza. Questo passaggio avrebbe molti effetti: evita di vanificare l’investimento in soldi, uomini ed energie per il lungo periodo in cui li teniamo in attesa di sentenza sulla richiesta di asilo e di protezione; evitiamo di produrre una massa crescente di irregolari, riduciamo il numero di rimpatri a chi non ha titoli per l’accoglienza dal punto di vista del diritto internazionale né si impegna nel percorso che gli proponiamo. E costruiamo un legame tra la fase di attesa e il dopo».

L’Anci chiede anche che l’accoglienza faccia capo ai Comuni attraverso lo Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati che sta dando buoni risultati.

«Dobbiamo attrezzarci per far sì che un numero molto più ampio di persone passi da quel circuito ma che può essere messo al massimo in parallelo alla fase dell’accoglienza diffusa. Nelle piccole comunità si può fare un lavoro simile in base agli stessi protocolli perché lì è più facile avviare forme di inserimento lavorativo rispetto alle grandi città. Pensiamo alle attività di manutenzione del territorio, a quanti spazi sono stati dismessi in ambito agricolo. È un dato di fatto che oggi ci sono mansioni manuali che gli italiani non fanno più».

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