«Ecco come ho difeso Tizzani
La battaglia vinta sul Dna»

Il giovane avvocato ha assistito l’ex capostazione di Seriate accusato dell’omicidio della moglie Gianna Del Gaudio . Sembrava destinato alla condanna, ma alla fine è stato assolto: «La sua verità ha trovato riscontro in dibattimento».

Sembrava l’avvocato uscito improvvisamente dalla penombra, destinato a finire travolto dal gorgo di un caso più grande delle proprie possibilità e da un processo che dava l’idea di essere già segnato, se esaminato dal perimetro tracciato dai media. Cui il futuro imputato fin dall’inizio aveva consegnato una versione ritenuta inverosimile e la sensazione dell’uomo rintanato in sé stesso, ostinato a non ammettere l’evidenza.

Un difensore poco avvezzo, e anzi dichiaratamente avverso, al bagliore insidioso del demi-monde della grande cronaca giudiziaria, dibattuta più nei salotti tv che nelle aule di tribunale da un circo chiassoso dove, tra opinionisti del macabro e criminologi a gettone, difficilmente la sua aggressività ovattata farebbe audience. Lei, così poco allineata anche nel modo di vestire, che non passa da tailleur da donna in carriera, ma da un look alternativo-ricercato, collane in legno, pantaloni larghi, ballerine stile vintage.

Come Philip Marlowe

Giovanna Agnelli pareva davvero una di quelle figure di seconda fila relegate nelle retrovie dalle più disparate circostanze dell’esistenza, come certi stropicciati detective privati della letteratura hard-boiled americana chiamati all’occasione della vita, costretti a lavorare tra i fumi dello scetticismo generale, ma che alla fine sanno stupire dimostrando doti fin lì mai pubblicizzate. Anche lei, come un Philip Marlowe, è riuscita a strabiliare, portando all’assoluzione un ex capostazione accusato dell’omicidio della moglie, che dava l’impressione di essere spacciato in partenza: Antonio Tizzani.

Per aver assistito l’attuale compagna di uno dei figli dell’imputato in una precedente causa di separazione, Agnelli all’indomani del delitto di Gianna Del Gaudio s’era vista affidare la nomina di fiducia dall’ex ferroviere, ritrovandosi a difendere un uomo all’antica, marito-padrone incline allo scatto d’ira, il solo che risultasse presente al momento in cui la donna fu sgozzata. «Dove vuoi andare?», le rinfacciavano. «E, in effetti, anch’io all’inizio, leggendo i giornali, ho avuto pensieri popolari. “Chi vuoi che sia stato, se c’era solo lui in casa?”, mi dicevo», confessa lei, che la notizia dell’assassinio l’aveva appresa al balcone, come una casalinga d’altri tempi (quelle moderne vengono informate in tempo reale dalle pagine social lette sullo smartphone).

«Me lo aveva detto la mia dirimpettaia – racconta l’avvocato –. Due giorni dopo ho ricevuto l’incarico e mi sono ritrovata al centro e immersa da questa vicenda. Ero contentissima e subito sono andata a leggermi i giornali».

Dai quali avrebbe appreso che l’alibi del suo assistito pareva traballante, che la versione dell’incappucciato entrato nella villetta di Seriate per rubare aveva i contorni di una frottola infantile. «Invece – osserva lei – questa versione Tizzani l’ha mantenuta sino in fondo, anche quando sarebbe stato controproducente farlo. Il giorno in cui, ad esempio, fu trovato il cutter insanguinato nel giardino di un’abitazione di Seriate, il mio assistito avrebbe avuto tutto il vantaggio a sostenere che l’omicida l’aveva preso in casa sua. C’era l’evenienza che gli inquirenti potessero rilevare tracce del suo Dna sull’arma, in quanto rinvenuta insieme ad altro materiale proveniente dalla casa, e a quel punto Tizzani avrebbe potuto sempre giustificarsi dichiarando di averlo utilizzato in passato. Invece, lo ha da subito disconosciuto. Io non ho mai cercato di imboccarlo, di fargli fare dichiarazioni diverse da quello che diceva. Non è una persona che puoi gestire, è un uomo che dice quello che sente, molto genuino e semplice. E, al netto di qualche fantasia che concedeva ai giornalisti per levarseli di torno, come è stato appurato a processo, la sua versione è sempre rimasta identica».

«In studio da mattina a sera»

Dice di non essersi mai sentita non all’altezza («In nessun istante ho pensato: ma chi me l’ha fatto fare?»), di non aver mai ritenuto di farsi affiancare da qualche avvocato più esperto. «La prima settimana volevo coinvolgere una collega, ma più che altro per il carico di lavoro. Ogni giorno c’era un accertamento. Poi ho ingranato e ho proseguito da sola, anche davanti alle 7.000 pagine di atti da studiare che ho acquisito dopo la chiusura indagini. Ero in studio dalla mattina alla sera, ho trascurato i miei figli Giorgio di 9 anni e Sveva di 11 e mio marito, anche se un giorno alla settimana per stare con loro me lo sono sempre ritagliato».

Difendere l’indagato di un omicidio che intriga l’opinione pubblica significava fronteggiare anche l’assalto dei media. «Ero stressata dai giornalisti, soprattutto da quelli delle tv. Io sono molto rigorosa e non mi piacciono certe trasmissioni. Nel primo periodo è stato difficile gestire il rapporto con gli organi di informazione. Riprendevo in continuazione il mio assistito, che non si sottraeva a microfoni e taccuini. Ho anche chiesto al sindaco di Seriate di emettere un’ordinanza per far cessare l’assedio delle telecamere a casa Tizzani. Ma niente. In principio uscivano notizie che io, non avendo ancora accesso agli atti, non potevo verificare. Non sapevo se erano distorte da certe trasmissioni o travisate già in uscita. Dipingevano Tizzani come un marito violento per anni. E io ogni tanto mi chiedevo: ma sto assistendo un uomo che trattava così la moglie? Tizzani ha sempre sostenuto la falsità di queste notizie e la sua verità ha trovato riscontro certamente in dibattimento, ma, a mio avviso, già in fase di indagini».

Disinnescato l’indizio del Dna

Il legale che all’inizio della carriera sognava la Francia (nel 2006 uno stage alla Corte d’appello di Parigi e poi un breve impiego in uno studio legale della capitale francese prima di tornare in Italia per amore dell’attuale marito) e che poi s’è specializzato nei processi per morti d’amianto, si trovava catapultato in un mondo nuovo. «Studiavo il codice passo per passo. Avevo la sensazione di camminare sui carboni ardenti, andava calcolata ogni mossa». Per questo ha pensato fin da subito a reclutare due consulenti tecnici di prim’ordine: l’anatomopatologo Antonio Osculati, scomparso prima di poter illustrare la sua relazione in aula, e il genetista Giorgio Portera. Con l’aiuto di quest’ultimo, Agnelli ha disinnescato la freccia più insidiosa all’arco del pm Laura Cocucci: il Dna dell’imputato sul cutter. «Siamo riusciti a convincere la Corte che quella traccia era frutto di una contaminazione avvenuta all’interno dei laboratori del Ris o all’esterno, per trasferimento. Anche perché nei successivi prelievi, nello stesso punto e in altri punti del cutter, non è più emerso alcun profilo riconducibile a Tizzani».

Assoluzione, dunque significa che c’è in giro un incappucciato pronto a sgozzare per rubare una collana, come ha sempre sostenuto il suo assistito. «Ma la versione non la trovo così inverosimile. Non è l’unico caso in cui un ladro entra in casa e uccide per rubare».

Le analogie col delitto Roveri

L’allusione, neanche troppo larvata, è a Daniela Roveri, la manager uccisa con le stesse modalità nell’androne del suo palazzo di via Keplero a Bergamo, quartiere Colognola, il 16 dicembre 2016: vale a dire, 4 mesi dopo Gianna Del Gaudio e a soli 8 chilometri di distanza da casa Tizzani.

«Gli atti di quel delitto sono entrati a processo, c’è stato un accostamento. Ma tengo a dire che il mio assistito è stato assolto per tutto “il resto” accertato nel processo. Questa comparazione si aggiunge, ma per ultima, a tutti i dati scientifici e sostanziali che hanno portato alla sua assoluzione».

Adesso che è uscita trionfante da questo intricato processo, Giovanna Agnelli si è messa a scrivere. All’orizzonte potrebbe esserci un libro. «Per ora è un diario personale, che parte da questa esperienza, ma riguarda per lo più la mia vita. Su cui, ovvio, questa vicenda ha inciso».

Forse annoterà che Tizzani dopo l’assoluzione «era commosso e contento, ha riconosciuto che avevo ragione a consigliargli di non parlare con la stampa». E magari alle sue pagine confiderà anche il modo con cui ha sempre guardato al suo assistito: «Un marito-padrone che io non avrei sposato. Ma questo non vuol dire che sia un violento e un assassino».

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