«Il mio Nicholas, ucciso in una rapina
I suoi organi hanno dato vita e speranza»

Ventuno anni fa, Nicholas Green, un bambino californiano di sette anni, fu ucciso durante un tentativo di rapina lungo l’autostrada Salerno-Reggio Calabria mentre era in vacanza con la famiglia.

I suoi genitori, Reg e Maggie Green, donarono i suoi organi e cornee a sette italiani molto malati, quattro dei quali adolescenti. In questi giorni Reg Green è a Bergamo, invitato dal dottor Lorenzo Galletti, capo dell’unità di cardiochirurgia all’ospedale Papa Giovanni XXIII, per commemorare il 30° anniversario del primo trapianto di cuore in Italia. Gli abbiamo chiesto cosa prova riguardo quella decisione di tanti anni fa di donare gli organi.

È vero, i ricordi di quella notte sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria sono ancora molto dolorosi. Posso ancora rivedere nella mia mente, in ogni dettaglio, quella raccapricciante immagine di Nicholas sul sedile posteriore dell’auto con la lingua che sporgeva fuori e una traccia di vomito sul suo mento, e il rendermi conto che uno di quei proiettili lo aveva colpito alla testa. Nicholas amava il vostro Paese e per essere solo un bambino ne aveva visto molto: dalle nevi del Cervino e i mosaici di Ravenna fino al mare blu della penisola Sorrentina e alla gloria di Paestum. Era elettrizzato dai racconti degli eroi classici e dalle strade dell’antica Roma che partendo da un unico luogo raggiungevano i confini del mondo conosciuto.

Neanche per un momento abbiamo pensato che l’Italia avesse premuto il grilletto. L’effusione di compassione che ricevemmo dalle persone di ogni età, credo, e posto nella società, ci mostrò – come nient’altro avrebbe potuto – che gli italiani avrebbero fatto qualsiasi cosa fosse in loro potere per proteggere Nicholas. Dalla sua morte, l’Italia ha ripagato l’amore di Nicholas centinaia di volte. Maggie ed io saremo eternamente grati per come così tanti di voi hanno tenuto Nicholas nei loro cuori. E non in modo fugace come accade normalmente con le personalità di cui si sente parlare al telegiornale, ma come un membro della famiglia, per ventuno lunghi anni.Nicholas rimase in coma, indebolendosi progressivamente, finché, due giorni dopo essere stato colpito, il suo cervello smise di funzionare. «Dopo tutto questo», mi ritrovai a pensare, «come potrò passare tutto il resto della mia vita senza di lui?» Non averlo più seduto sulle ginocchia per leggergli una storia, non sentirgli più dire «Buonanotte papà».

Maggie ed io sedemmo lì, tenendoci per mano, senza parlare, finché, dopo un po’, lei mi disse pacatamente: «Ora che se ne è andato, non dovremmo donare i suoi organi?». Dissi di sì, e ciò fu tutto. Era così chiaro che non aveva più bisogno di quel corpo. Ed era altrettanto chiaro che molti altri invece avevano un disperato bisogno di ciò che quel corpicino poteva dare. Per la prima volta da quando era stato colpito, ci rendemmo conto che c’era qualcosa di buono che poteva venire fuori da un assurdo, insensato gesto di forza bruta.

Ogni anno migliaia di famiglie in tutto il mondo prendono la stessa decisione e il loro dolore è identico al nostro. Ma molti non lo fanno, e la loro riluttanza è perfettamente comprensibile. La morte cerebrale è di solito una morte improvvisa, magari per un incidente d’auto o a causa della violenza come nel caso della mia famiglia. Non si è preparati a questo. Si giunge in ospedale per trovare qualcuno cui si voleva bene e che era in perfetta salute poche ore prima, che ora invece è morto o in fin di vita. Molti sono dolorosamente giovani. Ci si sente stanchi e confusi e si desidera andare a casa. Eppure viene richiesto di prendere una decisione irrevocabile su qualcosa cui magari non si è mai seriamente pensato prima. È troppo per molte persone, così alcuni dicono no e se ne rammaricano per il resto della loro vita.

Un’infermiera mi ha raccontato che era di servizio una notte quando un bambino venne portato in ospedale in condizioni disperate dopo un incidente stradale. I genitori erano distrutti. Quando venne il momento, l’infermiera fece un respiro profondo e chiese loro se volevano donare gli organi. Rifiutarono – e lo fecero con astio – per quella che videro come una volgare intrusione nei loro momenti più sacri. L’infermiera disse che comprendeva, ma tutto quello che riusciva a pensare era che al terzo piano di quello stesso ospedale, quella notte c’era un altro bambino piccolo che stava morendo – e morì – perché il cuore che avrebbe potuto salvarlo non arrivò mai. Penso spesso a quel bambino e a quanto andò vicino ad essere salvato e a come con tutta probabilità sarebbe stato salvato se quegli altri genitori, in quel momento troppo sconvolti per pensare chiaramente, avessero avuto una serena conversazione sulla donazione degli organi qualche mese prima.

Solo voi potete prendere questa decisione ma so una cosa: oggi, più di vent’anni dopo, quando penso ai riceventi di Nicholas che lavorano e hanno dei figli propri, che si godono le vacanze e si preoccupano di tutte le piccole cose di cui tutti noi ci preoccupiamo – il denaro, il tempo, i problemi familiari – e sapendo che due di loro senza un trapianto sarebbero ciechi e la maggior parte degli altri cinque, se non tutti, sarebbero morti. So che se avessimo preso una decisione diversa, Maggie ed io non saremmo riusciti a guardarci indietro senza un profondo senso di vergogna per aver voltato loro le spalle. Spero che nessuno di voi debba mai affrontare questo. Ma se dovesse capitare, spero che la nostra storia vi incoraggi a pensare adesso, quando la morte è solo un concetto molto distante, a quello che pensate dovreste fare. Una giovane donna italiana che ci scrisse, ci disse questo: «Da quando vostro figlio è morto, penso che le persone, le persone comuni, possano cambiare il mondo. Quando andate al piccolo cimitero dove riposa, per favore ditegli questo: qualcuno ha chiuso i tuoi occhi, ma tu hai aperto i miei»

© RIPRODUZIONE RISERVATA