Un bergamasco trovò lavoro a Joyce
un altro gli insegnò Dante e l'italiano

Senza quei due orobici entrati per caso nella vita di James Joyce, in due periodi distinti, la biografia del grande irlandese sarebbe stata proprio la stessa per filo e per segno? Due bergamaschi speciali, intrecciati persino a quella sua opera straordinaria.

Senza quei due orobici entrati per caso nella vita di James Joyce, in due periodi distinti, la biografia del grande irlandese sarebbe stata proprio la stessa per filo e per segno? Due bergamaschi speciali, intrecciati persino a quella sua opera straordinaria, pervasa da un immaginario così oscuro.

Andiamo a ritroso nel tempo, quando il destino gli fa incontrare quel signore dal nome per niente comune e originale. Se l'autore dell'Ulisse non lo avesse conosciuto, come sarebbe stato il suo soggiorno triestino? Avrebbe sbarcato il lunario in quei primi tempi terribilmente grigi? Senza un soldo, Joyce arriva a Trieste nell'ottobre del 1904 con la compagna di una vita, Nora Bernacle.

Giungono nella città straniera con un bagaglio misero. La lingua ostica per una coppia irlandese tipica. Ma non per James, che conosce la lingua di Dante: guarda caso grazie a un altro bergamasco, di cui però diremo più avanti. Intanto torniamo al primo orobico nominato. A quel tipo dal nome tonante, composto da quattro sillabe accentate sia nel nome di battesimo che nel cognome: Al-mi-da-no Ar-ti-fo-ni. Lui è come la manna dal cielo per il ventiduenne Joyce. Il deux ex machina, in quel luogo che ai suoi occhi vergini pare promettere poco, a parte il clima, unica nota gradevole. James e Nora trovano alloggio all'albergo Centrale.

Vi trascorrono qualche notte, poi si trasferiscono in una stanza di piazza Ponterosso, con vista sul mercato ortofrutticolo. A Joyce preme trovare un lavoro. Quindi si reca subito alla Berlitz School, in via San Nicolò. Delusione. Ha un colloquio con il vice direttore Giuseppe Bertelli, che gli nega la possibilità di un posto per lui lì a Trieste. Tuttavia Bertelli non lo lascia andar via con l'amaro in bocca. Gli dà una speranza: il proprietario della Berlitz di Trieste, il signor Almidano Artifoni, sta per avviare una nuova sede a Pola. Chissà forse laggiù potrebbe offrigli un incarico. Mentre attende con fiato sospeso il ritorno di Artifoni da Pola, lo scrittore trova due studenti cui dare lezioni private. Dovrà pur tirare avanti.

Sta lavorando come un matto al romanzo autobiografico Stephen Hero. Scrivere, scrivere, scrivere. Deve farlo, a tutti i costi, con la solita stoica disciplina. Due giorni volano in un baleno: Artifoni torna da Pola e incontra James. Il bergamasco, «uomo d'affari astuto», scrive John McCourt ne Gli anni di Bloom, comprende subito la convenienza di quell'acquisto madrelingua puro. Il posto d'insegnante d'inglese, nella nuova scuola di Pola, può dirsi suo. In una lettera al fratello Stanislaus, Joyce racconta subito del nuovo datore di lavoro: «Per fortuna è un socialista come me». Il bergamasco dal canto suo fa pubblicare su Il giornaletto di Pola un annuncio sull'arrivo del nuovo teacher e invita all'iscrizione gli studenti che fino ad allora non erano riusciti a trovar posto. Joyce rimane così colpito da quell'annuncio che ne acclude una copia nella lettera a Stanislaus, definendolo «un avviso sontuoso». Dopo 10 giorni a Trieste, domenica 30 ottobre la coppia parte per Pola. È mattina presto, quando salpano dal molo San Carlo, con la Graf Wurmbrand.

Dopo quattro ore sbarcano stanchi, ma contenti, perché Artifoni è li ad accoglierli, per condurli nel cuore della città che li ospiterà per i primi quattro mesi infelici e faticosi di quei 27 anni di esilio volontario in Europa. Ma ora qualche nota biografica su Artifoni. Nasce a Bergamo il 5 marzo 1873. Si diploma alla Scuola Superiore di Commercio a Genova. Insegna cinque anni alla Berlitz School di Amburgo, quindi ne assume la direzione. Lascia la Germania per Trieste nel 1900, dove sposa la triestina Pia. Nella città giuliana nel 1901 apre Berlitz, dove temporaneamente insegna spagnolo. La sua direzione prosegue ufficialmente fino al 1911, anche se nel 1907 ne affida la gestione agli insegnanti Joseph Guye e Paolo Sholz. Pure Joyce, passato alla sede di Trieste, lascerà l'incarico in Berlitz proprio nel 1907, per un carnet più remunerativo di lezioni private. Dal 1910 Artifoni svolge attività di consulente per il Tribunale di Trieste e insegna contabilità in via Giotto, alla scuola serale della Società degli impiegati civili, dove nello stesso anno andrà a lavorare guarda caso anche Joyce. La stessa Società pubblicava il quotidiano socialista Il Diritto, che circolava alla Berlitz di Artifoni, per Joyce anche tramite con i socialisti triestini. Inoltre Artifoni si adoperò perché Nora ottenesse un posto di insegnante alla Berlitz tra il 1910-1913.

Ora sappiamo che «fu proprio Artifoni a consigliare a Joyce e a Nora di farsi passare per una coppia di consorti in perfetta regola civile, per evitare complicazioni burocratiche ma anche scandali inutili», spiega Riccardo Cepach, direttore del Museo Joyce di Trieste. Artifoni muore a Trieste il 25 agosto 1950.

Cepach precisa che Artifoni «contribuì alla varietà linguistica della città, fondando nel 1902 il giornale Il Poliglotta, che pubblicava in cinque lingue». E che Artifoni prestò a Joyce un vestito decente per la conferenza «Irlanda. Isola dei miti e dei Savi» all'Università popolare. E poi un giorno propose ai fratelli Joyce di comprare la Berlitz di Trieste per mille lire credendo che il loro padre fosse ricco. I Joyce rifiutano. Cepach menziona anche i tanti prestiti e anticipi che Artifoni gli fece sullo stipendio. Joyce evidentemente gli riconosce i mille favori, visto che gli tributa quel bel ritratto letterario ne L'Ulisse: nel capitolo decimo, chiama Almidano Artifoni l'insegnante di musica che incoraggia Stephen Dedalus a raffinare le doti canore per una futura carriera (Stephen è l'alter ego di Joyce, che effettivamente studiò il belcanto).

Ma infine parliamo dell'altro bergamasco, il primo in ordine cronologico nella vita dell'autore dei Dublinesi. Quel padre Carlo Ghezzi che a Dublino gli instillò l'amore per la letteratura italiana, rendendolo un «Italianate Irish». Joyce aveva deciso di studiare la Cenerentola delle lingue moderne già al Belvedere College. Ma fu il gesuita Ghezzi, lettore di italiano all'University College, che infuse la passione per la nostra lingua al giovane Joyce, che «condivise il suo entusiasmo per Dante e i trecentisti», sottolinea Corinna Del Greco Lobner in Italica, evidenziandone il rapporto empatico. Il gesuita lo introdusse alla teologia tomista e al pensiero filosofico di Giordano Bruno, importanti per la sua opera matura.

Gli trasmise l'interesse per Gabriele D'Annunzio, approfondendo Il Fuoco, che lo scrittore riprese poi in una conferenza. Ulick O'Connor nel libro Joyce We Knew, che raccoglie testimonianze dirette degli amici dello scrittore, include il ricordo di Eugene Sheehy, suo compagno all'U. C. tra il 1898 e il 1902: «Io e Joyce frequentavamo la stessa classe di italiano. Il lettore era un gesuita bergamasco: era stato in India per anni, parlava un inglese perfetto. Joyce aveva una meravigliosa attitudine per le lingue. Il mio compito era stare lì incantato ad ascoltare padre Ghezzi e James discutere in italiano di filosofia e letteratura».

Una conferma significativa della forte sintonia intellettuale che correva tra il grande irlandese e quel «moro intelligente proveniente da Bergamo».

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