Il genio di don Spada
tra penna e clergyman

Bergamo ricorda monsignor Andrea Spada: prima una Messa con il vescovo Beschi, poi la cerimonia per la dedica della piazzetta accanto a «L'Eco» allo storico direttore del nostro giornale. Gladius, si firmava così quando usava lo pseudonimo, è morto il primo dicembre 2004.

Bergamo ricorda monsignor Andrea Spada: prima una Messa con il vescovo Beschi, poi la cerimonia per la dedica della piazzetta accanto a «L'Eco» allo storico direttore del nostro giornale. Gladius, si firmava così quando usava lo pseudonimo, è morto il primo dicembre 2004.

Si era spento, a 96 anni, nel letto della sua casa a Schilpario, vegliato dalle immagini di Papa Giovanni e Kennedy, due personaggi che appartengono al cuore e all'intelligenza di Spada. Un genio che ha attraversato la temperie ideologica del Novecento con il breviario in mano, il Borsalino sul capo e il pennarello rigorosamente nero nella tasca interiore del clergyman sartoriale.

Non era nato con la camicia, ma con il carisma. Aveva carattere, e che carattere. Uomo talora difficile: lo sapeva, per carità, e gli andava bene così. Veniva dalla Bergamasca profonda, dalla Val di Scalve, terra di gente indomabile e dalla schiena dritta: per capire Spada, le sue virtù e i suoi tic, bisogna partire da qui, da questa genìa orgogliosa e identitaria. Personaggio irripetibile, apparteneva a quella razza di fuoriclasse alla Montanelli, suo grande amico. Quando il giornalismo era ancora una faccenda umanistica dominata dai solisti.

A Bergamo ha dato molto, buona parte di se stesso, compresa l'illusione di essere come lui la voleva. Non sempre è stato così: lo sapeva e ne ha sofferto. «Si è dedicato alla sua terra, cercando di salvarne l'anima», raccontava lo storico Giorgio Rumi. La grandezza di questo sacerdote giornalista, dagli occhi azzurri che quando ti fissavano ti intimorivano, stava nel suo essere un uomo vero. Capace di grandi gesti e anche, perché no, di sbagliare, ma soprattutto di soffrire e di voler bene: alla sua terra e alla sua gente, alla Chiesa, e soprattutto - se ci è consentito - alla sua creatura, «L'Eco».

La sua fortuna, e anche quella del giornale, era una felice combinazione fra il talento dell'uomo e le contraddizioni della sua esistenza. O meglio: della mano della Provvidenza, come lui correggeva. Parlava spesso della Provvidenza e quando lo faceva abbozzava un sorriso, allargava le braccia e poi, quasi a ritornare fra noi comuni mortali, chiedeva al sottoscritto la consueta «Marlboro». Era venuto al mondo con il piglio del comandante e disse «obbedisco» al vescovo Bernareggi che lo mandò a «L'Eco».

Uomo di montagna, e senza saper nuotare, è diventato ufficiale di Marina. Lui, che veniva dal microcosmo della Val di Scalve, ha preso in mano un foglio cattolico di provincia e ne ha fatto prima un giornale vero e proprio e poi una prestigiosa voce d'opinione e infine il primo quotidiano di provincia in Italia. Era un intellettuale: non da laboratorio, bensì vincolato al principio di realtà.

Diffidava da chi filosofeggiava e anche per questo, lui democristiano senza se e senza ma, non s'è mai preso con le «convergenze parallele» di Moro. Era un realista pragmatico, un uomo d'ordine nel senso che inseguiva l'idea di una società armonica e interclassista, fatta di doveri individuali e rispetto delle regole collettive. Noi, per convenzione, lo definiamo storico direttore: in realtà è stato un modernizzatore che ha rifondato «L'Eco».

Facile a dirsi oggi, ma allora ci voleva coraggio e si trattava di abbattere qualche tabù. Non facile neppure per un sacerdote che s'incamminava in un territorio non proprio frequentato dagli uomini di Chiesa: del resto l'autonomia concettuale e il prestigio de «L'Eco» avevano animato a suo tempo un dibattito nel mondo cattolico, sul ruolo cioè di un giornale d'ispirazione cristiana nei confronti della politica, dell'ambiente ecclesiale, di quel che si avvertiva nella sensibilità dell'associazionismo cattolico.

Così come i saggi di Spada sulla liturgia, un po' il suo pallino, suscitavano interesse e discussioni. Ne usciva, in questa sede, il tratto dell'esteta, dell'uomo di gusto, più che del teologo. Spada, di certo, era un esteta. E anche qui ritroviamo le contraddizioni di cui abbiamo parlato all'inizio e che hanno reso abbordabile una personalità più articolata rispetto allo stereotipo dell'uomo tutto d'un pezzo.

Eleganza e raffinatezza non erano tratti marginali in una persona che veniva dal popolo minuto e i cui bisogni stavano in cima alle sue preoccupazioni. In Spada convivevano l'identità popolare e i residui elitari del suo essere stato ufficiale gentiluomo in Marina: persisteva un tratto aristocratico che gestiva come un riscatto, suo e della sua gente, rispetto a un passato di marginalità. Ha avuto parecchi meriti storici. Il primo, forse quello meno valutato, è che ha contribuito ad affermare il protagonismo del giornalismo quando questa professione era ritenuta dalla società accademica dei parrucconi d'antan figlia di un dio minore, roba per gazzettieri. Anche in questo era irriducibilmente montanelliano. Il secondo è quello di aver inventato una formula di giornalismo popolare, inusuale nei giornali di provincia, utilizzando l'ascensore dal basso all'alto: bricolage cronachistico fin dentro le pareti domestiche e opinioni, la cronaca del piccolo borgo bergamasco in dialogo con il mondo.

C'era in Spada una vena pedagogica che guardava lontano, oltre la cronaca. «L'Eco» ha contribuito all'alfabetizzazione dei ceti popolari della Bergamasca in marcia dalla povertà verso il benessere ed è stato uno strumento, talora controcorrente, per la crescita civile e democratica della nostra terra. Il terzo aspetto è il fattore umano: il giornalismo di Spada segnalava l'errore, ma non denunciava l'errante. Sapeva in questo di dover pagare dazio, ma il rispetto della persona era per lui un valore non negoziabile.

«Ricordatevi - ci ammoniva - che la notizia è una cosa e l'impatto è un'altra. Noi entriamo nelle case anche con le brutte notizie e turbiamo i nostri lettori: ci vuole tatto». I suoi giornalisti sapevano di essere non solo dipendenti, ma parte di una comunità di destino: si trattava di coltivare una certa idea di giornalismo, di difendere una bandiera e non di vendere un prodotto. Voleva che il giornale fosse guidato dal buon senso: un po' padre di famiglia, un po' il vicino di casa. Per lui la comunicazione era una porta aperta a tutti.

Al giornale arrivavano sempre i poveri della Bonomelli, ben sbarbati e vestiti dignitosamente. Chiedevano di don «Ispada», dicevano così in un improprio italiano. Il direttore, se li incontrava nel corridoio, prendeva il portafogli e li accontentava. Se non c'era lui, sapevano che il suo segretario aveva la busta pronta. «Vedi, anche questo è L'Eco», mi spiegava proprio lui, che non aveva alcuna frequentazione con le banalità terrene dei soldi. E si vedeva che era contento.

Franco Cattaneo

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