«Riva e De André due ore in silenzio»

Bergamo Federico Buffa sabato porta al Teatro Creberg «Amici fragili», storia dello strano incontro di una notte, nel 1969, tra il cantautore genovese (e genoano) e il bomber del Cagliari ossessionato da una sua canzone.

È il 14 settembre 1969. Domenica: Gigi Riva con il suo Cagliari nel pomeriggio ha appena pareggiato 0 a 0 con la Sampdoria, alla prima giornata di quel campionato che avrebbe portato alla città sarda il suo unico, storico scudetto. Dopo la partita Riva va a casa di De André, tifoso genoano. Non ha ancora compiuto 25 anni, Faber è un po’ più grande, ne ha 29. I due - racconta Federico Buffa - hanno caratteri molto diversi ma anche degli strani punti di contatto: la Sardegna, che anche Fabrizio frequenta spesso, il mare, il rosso e il blu delle due squadre, certe canzoni... Una in particolare: quella «Preghiera in gennaio» che Fabrizio ha scritto un paio d’anni prima, dopo aver visto all’obitorio di Sanremo l’amico Luigi Tenco morto. Gigi la ascolta ossessivamente.

Buffa racconta questa storia in «Amici fragili», sabato al Creberg Teatro, alle 21.

«Per Marco Caronna, che ha scritto con me lo spettacolo - spiega - sia Riva che De André sono due grandi attaccanti che nella vita hanno giocato in difesa: sono dotati di un’enorme potenza nella loro forza espressiva, nei rispettivi campi, ma vivono anche grandi fragilità. E solitudini».

A lei piacciono i dettagli: ha ricostruito tutta questa storia a partire da un incontro che era noto ai biografi, ma assolutamente fugace.

«Molto fugace, sì. Un ex giocatore del Cagliari che nel ’69 giocava ormai nel Genoa chiamò Riva dicendogli: guarda che io ti posso organizzare un incontro con quello che ha scritto la canzone che ascolti sempre: Fabrizio lo vediamo spesso, è un nostro supertifoso. La storia in teatro inizia proprio con una telefonata di Riva a De André che gli dice che tante volte è arrivato fin sotto l’Agnata, la casa che il cantautore aveva nel Nord della Sardegna, ma poi intimorito, intimidito dall’idea di dar fastidio non si è mai presentato alla porta».

Due personaggi introversi.

«Totalmente. È una chiave interpretativa centrale in questa storia».

Di un’introversione però creativa.

«Riva la sua rabbia da introverso la scaricava in campo. Ed è il punto in cui Luigi e Fabrizio trovano veramente un terreno comune. Hanno raccontato che nelle prime due ore di quella notte hanno solo fumato e bevuto whisky. Nessuno dei due riusciva a dire una parola. Poi Riva chiede a De André chi lo ha ispirato, salta fuori il nome di Georges Brassens e da lì cominciano a parlare delle canzoni francesi, delle loro passioni, della loro visione del mondo... Alla fine Fabrizio regala a Gigi la sua chitarra, e Gigi a Fabrizio la sua maglia numero 11 usata quel giorno. Si lasciano che è quasi l’alba, promettendosi di rivedersi. Ma questo non succederà».

Mai?

«Riva mi ha rivelato che si sono incontrati di nuovo praticamente solo un’altra volta, per pochi secondi, perché De André passando da Cagliari andò a trovarlo in foresteria».

Di questa storia ha parlato direttamente con lui?

«Ho dovuto fare una triangolazione, Gigi è molto riservato: mi ha fatto avere dei messaggi. Quando siamo stati a Cagliari, la prima settimana del tour, lo abbiamo ovviamente invitato, lui e i figli, ma in teatro sono venuti solo loro. Per Luigi è un po’ difficile assistere a uno spettacolo del genere, emotivamente fa fatica a riaprire questa parte della sua vita, legata alla scomparsa di entrambi i genitori, che ha perso giovanissimo e che sono il vero rimpianto della sua esistenza: soprattutto la madre, che era la sua grande complice».

A Riva nel ’19 lei aveva già dedicato due puntate di #SkyBuffaRacconta: è un suo mito?

«Da ragazzino ero una sorta di stalker per lui. Tutti gli anni a luglio tornava al paese dov’è nato, Leggiuno, vicino Lago Maggiore, io ho passato infanzia e adolescenza d’estate a Reno, il paese accanto. Lui tornava a casa e si metteva fuori in veranda a fumare, io con la mia biciclettina andavo a vederlo, perché per me a quell’età Riva era un dio greco».

Queste di calcio sono grandi storie umane. Oggi però l’impressione è che lo sport abbia perso un po’ questa caratura epica.

«Totalmente. Ai tempi che raccontiamo non c’era questo assedio di immagini, di comunicazione. Per cui il ricordo mantiene quella “brina” della prima mattina che tu puoi asciugare e iniziare a raccontare una storia. Recentemente ho ricostruito la Coppa Davis del ‘76: quella di Tonino Zugarelli, uno dei quattro che la vinsero, è una storia di migranti del Sud che vivono in una baraccopoli ai bordi di Roma sperando prima o poi di riuscire a entrare nella città e di vivere in un alloggio degno di questo nome. È improbabile, per non dire impossibile che un ragazzo di quelli possa arrivare a giocare a tennis a livello mondiale. È una storia stupenda. Se accedesse oggi, però, sarebbe già tutta “fuori”, sarebbe già tutto pubblico. Tra 20 o 25 anni vicende di questo tipo non si racconteranno più, perché saranno tutte scritte, tutte note. Oggi per fortuna ce ne sono ancora, affidate al passa parola... Ma sono le ultime, temo. Adesso Sky mi ha chiesto di lavorare su Enzo Bearzot, sono stato ad Aiello del Friuli, dove è nato. In paese ci sono ancora una ventina di persone che lo hanno conosciuto bene: gente che ha bevuto il Sauvignon con lui da quando aveva 12 anni... Credo che Bearzot sia un uomo che ha gestito il suo mestiere meravigliosamente, usando l’etica come un dissuasore rispetto ad altri pensieri. Soltanto Prandelli, più di recente, si è avvicinato, però questo concetto oggi non passa più, non è più una cosa importante. Viviamo in tutt’altro mondo. E io amo recuperare storie di persone eccezionali di epoche passate. In un mondo oggettivamente malsano come quello dello sport professionistico, perché dove ci sono tanti soldi ci sono anche tante deviazioni. Gli amici di Bearzot di Aiello per me sono molto più importanti di cose che accadono adesso nel calcio e che a dire la verità mi annoiano un po’».

In fondo De André e Riva, questo genovese che non va d’accordo con gli altri e questo varesotto che sbarca a Cagliari e non se ne va più, sono due italiani famosissimi ma al tempo stesso marginali.

«A me piace lavorare sui margini. Oggi una storia come quella di Riva non potrebbe accadere. Nessuno sportivo italiano si comporterebbe come lui. A un attaccante del genere, una delle grandi squadre del Nord avrebbe offerto 12 o 13 milioni di euro l’anno e lui avrebbe lasciato Cagliari. Invece Riva ha sempre resistito. Quando sono andato a girare la storia del 2019 per Sky era ancora viva sua sorella Fausta, che è quella che l’ha tirato su, gli ha fatto un po’ da madre. Mi ha raccontato che la mamma quando era rimasta vedova - il padre era morto in un incidente sul lavoro - si mise a fare i doppi turni in filanda per mettere un piatto di minestra sulla tavola la sera. Ma non poteva tenere il bambino a casa perché nessuno era in grado di prendersene cura. Quindi lo mandano al collegio dei preti a Viggiù, e poi Milano. Lui, offeso dall’idea di dover andar via dal suo paese quel giorno sale su un fico - proprio come il Barone rampante di Calvino - e non vuole più scendere: “Sto bene qua”. Alla fine però, siccome sua madre piange, cede. E qualche anno dopo, quando morì anche la mamma, sconvolto e offeso perché secondo lui la sorella non gli aveva detto esattamente quanto grave fosse la sua malattia, per tre giorni sparì nei boschi. Stiamo parlando di cose che oggi non potrebbero succedere. Valentino Mazzola, che per me è il più forte giocatore italiano di tutti i tempi, faceva tutti i giorni in bici da Cassano d’Adda al Portello per andare all’Alfa Romeo a lavorare: 45 chilometri, sulle strade degli anni ‘30. Oggi i genitori appena uno sa tirare un calcio al pallone pensano già alla sua carriera da professionista. Ai ragazzi voglio raccontare queste storie».

Prima che spariscano.

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