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Cinema e cibo, le dimensioni del desiderio

Intervista. Venerdì 24 novembre alle 20.30 all’auditorium di Piazza della Libertà, all’interno di «Convivio 2023: il cibo nella cultura», una serata con due critici per parlare del ruolo del cibo nei racconti cinematografici. La rassegna di incontri a tema è organizzata da «Premio Narrativa Bergamo» e dalla rivista online La Balena Bianca

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Il cibo è forse l’oggetto principe del desiderio. E dal momento che ogni storia è una storia di desideri, il cibo costituisce da sempre un elemento perfetto per il cinema e per le narrazioni in generale. Proprio l’immagine di un piatto di zuppa è la prima a comparire nel celeberrimo esperimento cinematografico del regista e teorico sovietico Lev Vladimirovič Kulešov – un esperimento denominato appunto «effetto Kulešov» – usato per descrivere le dinamiche di produzione del senso, attraverso il montaggio, nel linguaggio cinematografico.

L’esperimento si basa sull’associazione di un’inquadratura di un volto privo di espressione con altre immagini. Quali idee e quali sensazioni suggeriscono le relazioni tra le immagini? Che cosa ci sembra esprimere, di volta in volta, quel volto? Dipende dalle immagini con cui entra in relazione. Un piatto di zuppa e uno stacco su un volto in primo piano: lo spettatore percepisce fame. L’immagine di una bambina morta e uno stacco sullo stesso volto in primo piano: sgomento. Una giovane donna coricata su un divano e di nuovo uno stacco sul solito volto in primo piano: attrazione fisica. Insomma, l’immagine dello stesso volto, se inserita in combinazioni diverse, può suggerire idee diverse.

Da sempre il cinema ha fatto suo l’elemento del cibo, addirittura, come ci dimostra l’effetto Kulešov, per spiegare il suo stesso funzionamento. Naturalmente c’è poi tutto un interminabile menù, componibile attingendo da film di ogni genere e di ogni epoca. Il cibo, la fame, il mangiare: motivi ricorrenti, elementi estetici, drammaturgici, scenografici, di caratterizzazione, magneti al centro di dinamiche tensive.

Proprio il grande e sfaccettato ruolo del cibo nella cinematografia sarà il cuore dell’incontro di venerdì 24, «Divorare il futuro», dalle 20.30 all’auditorium di Piazza della Libertà, in collaborazione con «Bergamo Film Meeting» e Lab80. Seguirà la proiezione del film «La piccola bottega degli orrori» (1960) di Roger Corman. L’ingresso è gratuito. A raccontare la serata è Gianni Cobretti, che interverrà insieme a Manuela Martini.

MR: In questo spazio sterminato, secondo quale principio avete composto la selezione di spunti che guideranno l’incontro?

GC: L’idea era di dare un’ampia panoramica, di non chiuderci in un filone particolare, ma di toccare un po’ tutto per dimostrare in quante declinazioni si può parlare di cibo nel cinema. Ci sono film completamente dedicati al tema, film che dedicano una scena chiave a quello, film che utilizzano il cibo per dipingere un intero mondo. «Blade Runner», ad esempio, non ha il cibo come tema principale ma è interessante vedere come lo inseriscono – nella sequenza dove lui mangia alle bancarelle cinesi – in un contesto del futuro, come viene immaginato. Abbiamo cercato di fare un viaggio che passi attraverso diverse suggestioni: una panoramica sui tanti modi di usare il cibo al cinema, sia in senso tradizionale che metaforico, sia per parlare del presente che del futuro. Io, più precisamente, interverrò come specializzato sull’horror, dove – seppur non ne parleremo per restare su un’idea classica di cibo – spesso il cibo sono le persone stesse.

MR: Il cibo è certamente uno strumento efficace, forse un po’ facile, con cui caratterizzare personaggi, situazioni, dinamiche relazionali, costumi: il cibo nei film è spesso un rivelatore culturale e traccia i confini di una dimensione sociologica. Tuttavia può essere molto di più, assumendo una profonda funzione allegorica («La grande abbuffata», «Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante») o drammaturgica – la carne avariata in «La corazzata Potemkin» è un plot point convincente e celeberrimo, come la scena degli spaghetti in «Lilli e il vagabondo» del resto –. Ha parlato di horror: come compare il cibo, la fame?

GC: Si diceva del cibo come desiderio primario: anche se non parleremo specificatamente di questo, ci sono innanzitutto i film dell’orrore su grandi mostri che usano gli esseri umani come cibo perché è il loro istinto, il loro desiderio naturale. Nell’horror le declinazioni sono tante, sicuramente spesso fatte a un livello metaforico. C’è «2022: i sopravvissuti», con un intento satirico nel contesto di una distopia terrorizzante; oppure il più recente «Raw – Una cruda verità», incentrato su una giovane ragazza che scopre di avere istinti cannibali, diventa un po’ una metafora dello scoprire sé stessi e il proprio ruolo dentro la società. Abbiamo scartato i vampiri per non parlare di “cibi liquidi”, ma sono figure prolifiche, quando si parla di cibo: si sono visti più di recente vampiri con una crisi di coscienza, usati come metafora delle correnti alternative, vegane e vegetariane, che cercano nelle alimentazioni alternative sia la sopravvivenza umana che dell’ecosistema. Insomma, anche nell’horror i modi di usare il cibo sono veramente tanti.

MR: Il cibo può essere un grande strumento per raccontare il contemporaneo quindi: spreco alimentare, il cibo come spettacolo di intrattenimento, come movente turistico che plasma i centri storici sui bisogni di turisti-mangioni. E ancora: insieme al sé, è il soggetto principe della compulsione alla fotografia in quest’era di narcisi affamati. Insomma, è un campo aperto. Il cinema di oggi come tasta questo polso?

GC: Penso che proprio l’horror si presti bene a fare da campo libero in questo senso. Attraverso la figura del vampiro, come dicevo, ma non solo. Oggi molte figure hanno a che fare proprio con la diffusione degli show televisivi sulla cucina: ci sono sempre più spesso dei “dietro alle quinte” sul mondo dei ristoranti e dei cuochi. Il cibo come qualcosa che non è solo un nutrirsi ma un’esperienza, un modo di essere, un simbolo benessere sociale, di uno status. Venerdì parleremo di film recenti che trattano il cibo in questo modo – «The Menu» per esempio – dove il cibo viene visto in senso più ampio, come esperienza, come arte. Si sta esplorando proprio di recente questo tipo di cosa: la figura del cuoco – «Boiling Point. Il disastro è servito» per esempio – oppure la serie «The Bear». È il trend in questo momento.

MR: Il racconto delle figure professionali, insomma.

GC: Esatto. Anche perché spesso il cuoco è visto come artista e la fruizione del cibo non si limita al riempirsi lo stomaco, a soddisfare un desiderio, ma è funzionale anche a un certo tipo di esperienza in cui i clienti sono intesi un po’ come critici d’arte, invece che come consumatori.

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