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Ad ogni piatto di carne un racconto. A pranzo con l’America Latina

Racconto. Alvaro, Rosi, Dolores, Pedro. Dicono che il modo migliore per conoscere qualcuno sia a tavola. E così, proprio a un pranzo, è avvenuto l’incontro con la comunità sudamericana, la più numerosa a Bergamo e composta per il 17,2% da boliviani

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È domenica e mancano pochi minuti a mezzogiorno. In via San Lazzaro, il suono delle campane mi guida verso il portone di una chiesa che non avevo mai notato prima. Una donna e una bambina dai tratti sudamericani oltrepassano l’androne e dall’interno della cappella si diffonde il canto in spagnolo di un coro.

Capisco di essere nel posto giusto. È la chiesa di San Lazzaro, dove ogni domenica alle 12 si celebra la messa in lingua madre per la comunità latinoamericana di Bergamo. Dentro, c’è un gran fermento e sembra proprio di essere in un quartiere di La Paz: tutti conoscono tutti, si chiamano per nome, chiedono aggiornamenti sulla salute del cugino o della zia del proprio vicino di posto, si scambiano abbracci.

Da lì a poco inizia la messa, celebrata da Don Mario Marossi e animata dalla partecipazione dei suoi parrocchiani. L’ora passa veloce e, finiti i canti e le preghiere spagnole, è il momento del pranzo. Come ogni domenica, i fedeli si dirigono verso il refettorio di San Lazzaro, nel brusio di parole spagnole.

È in quel momento che spunta dalla folla Alvaro Quiroga, il rappresentante della comunità boliviana per i cattolici a Bergamo. Gli occhiali da sole appoggiati sulla fronte, lo sguardo buono e gentile: si presenta così, dandomi il benvenuto e introducendomi alle persone rimaste in chiesa. Subito mi invita a seguirlo fuori da San Lazzaro dove, all’ingresso, una donna distribuisce dei sacchetti di frutta. «È una forma di condivisione» mi spiega Alvaro, mentre mi guida verso la sala da pranzo.

Nel refettorio si respira un clima frizzante e famigliare. Dal trambusto, sembra che ci siano più persone del previsto, ma non è un problema: ci si stringe. Alvaro mi fa accomodare ad un tavolo ben apparecchiato e si siede accanto a me. Inizia poi a spiegarmi dove ci troviamo: «La maggior parte dei migranti boliviani in Italia vive a Bergamo proprio grazie a questo centro. Qui, nella chiesa di Santa Rosa da Lima, nel 2004 fu istituita una Missione con cura d’anime per rispondere alle necessità di migliaia di boliviani che arrivarono in Italia, impauriti e in cerca di lavoro». Con Missio cum cura animarum – mi documento a seguito delle sue parole – si intende una struttura fondata dalla Chiesa per seguire delle realtà molto specifiche non connotate territorialmente o, meglio, che non si potevano identificare con un territorio parrocchiale e sono state utilizzate per lo più per i migranti.

Siamo quindi in una sorta di “parrocchia” senza territorialità che da anni raccoglie le istanze degli immigrati presenti nella bergamasca, per lo più sudamericani. «All’inizio – continua la mia guida – la Missione Santa Rosa si dedicava principalmente a seguire l’“emergenza boliviana”, fornendo un punto di ritrovo e incontro per la formazione, la preghiera e la crescita spirituale. Poi, nel 2007, la Comunità Europea decise di mettere il visto di ingresso in Italia. Allora, il flusso di persone provenienti dalla Bolivia diminuì e così anche la pressione sulla Missione Santa Rosa».

Furono quelli gli anni in cui la comunità boliviana iniziò a strutturarsi e ad integrarsi con quella bergamasca, animando le messe o aprendo i primi ristoranti e negozi. «In quel periodo sono nate iniziative come il corso per imparare le basi di assistenza agli anziani» mi spiega Alvaro, che di professione fa proprio il badante. In quel momento, arriva da noi Suor Priscilla che, con un grembiule stretto in vita, distribuisce il pranzo cucinato da un ecuadoriano: stufato di carne con riso. Mentre mi destreggio con una salsina piccante da mettere sul piatto, Alvaro, a sorpresa, si alza per annunciare alla comunità la mia presenza e invitare tutti a raccontarmi un pezzo della loro storia. Gli applausi incorniciano il momento, fatto di sorrisi entusiasti e sguardi divertiti.

La donna dai capelli scuri e gli occhi curiosi seduta di fronte a me è la prima che mi rivolge la parola. Si chiama Rosi e mi conferma quanto il Centro San Lazzaro sia stato fondamentale: «Nei primi tempi, ogni pomeriggio venivamo qui per imparare la lingua italiana e per partecipare ai laboratori di lavori manuali». Un piccolo inizio per un lungo processo di integrazione. I corsi di cucina o di artigianato garantirono a poco a poco l’inserimento dei migranti nella società e abbassarono il rischio che le persone senza permesso di soggiorno e punti di riferimento, spesso abbandonate a se stesse, finissero nella rete dello spaccio o della prostituzione.

All’inizio infatti non fu semplice, mi avvertono gli altri commensali: «Noi siamo gente pacifica, tranquilla, seria, venuta in Italia per trovare un lavoro onesto. All’inizio però, quando scadeva il visto turistico, nel giro di un mese diventavamo dei “clandestini”. Allora era difficile essere in regola con i documenti, nonostante i nostri sforzi». A conferma di ciò, Alvaro mi porge il libro «Bérgamérica 2004-2014: Cammino della Chiesa di Bergamo con i Latinoamericani». Lì si ricordano proprio l’incapacità iniziale di gestire l’enorme e improvviso flusso migratorio dalla Bolivia e le conseguenti condizioni di tensione e disagio, sfociate spesso in risse o nell’abuso di sostanze alcoliche. Si tratta però del passato: oggi la maggior parte dei boliviani si è stabilizzata e integrata, con una famiglia e un’occupazione.

Proprio di questo vuole parlarmi Rosi, che mi descrive entusiasta il progetto «Dispensa sociale» della Cooperativa Namastè per cui lavora. «Recuperiamo gli alimenti scartati dalla grande distribuzione o dall’ortomercato, ma ancora in buono stato, per ridistribuirli ad enti e istituzioni che hanno necessità» racconta, per poi invitarmi a seguirla in cucina. Lì ci sono Dolores, intenta a sciacquare una grossa pentola, e Pedro, il cuoco di quella domenica. Rosi intanto prende un cucchiaio di legno con cui toglie gli ultimi chicchi di riso rimasti nella padella, fedele alla sua filosofia di non sprecare nulla. Ognuno dà il suo contributo.

Quando il profumo del caffè si diffonde, torniamo insieme nella sala da pranzo, dove mi aspettano con i loro racconti altre donne e uomini provenienti non solo dalla Bolivia, ma anche dall’Ecuador e dal Perù. I miei occhi si incrociano con quelli sorridenti e truccati di Anna Paola, che decide di condividere con me i dettagli di ciò che faceva a Lima prima di partire per l’Europa e poi raggiungere Bergamo. Mentre cerco di seguire le innumerevoli coincidenze e incontri della sua storia, interviene Isidora, che mi sprona a raggiungerla al suo tavolo di amici peruviani. Tutti loro fanno parte della Confraternita del Señor de los Milagros e la terza domenica di ottobre partecipano alla festività solenne nella chiesa di Sant’Alessandro in Colonna. «Anche se siamo lontani dal nostro Paese – commentano – riusciamo a salvaguardare la nostra cultura e a farla conoscere ai bergamaschi». Le loro voci poi si accavallano per descrivermi i loro vestiti tipici o le loro attività da organizzare ogni mese.

Colgo allora l’occasione per chiedere quali siano le altre ricorrenze sudamericane che si festeggiano a Bergamo e i loro occhi si illuminano. Passano in rassegna tutte le sfilate che colorano e animano le strade bergamasche, partendo dalla Festa della Virgen de Urkupiña, la Madonna dell’integrazione nazionale del Paese andino, festeggiata dai boliviani il 15 agosto per esprimere la loro devozione alla Maria Assunta. Poi, la seconda domenica di settembre è dedicata alla patrona di Cuba, la Virgen de la Caridad del Cobre, mentre a ottobre è il turno della Virgen Aprecida per i brasiliani. La musica e le danze folkloriche si concludono a dicembre, con la festa religiosa del Divin Niño, celebre in Ecuador.

Nel 2014, il Pew Research Center riportava come per il 69% della popolazione sudamericana la fede cattolica – e in particolare la dedizione alla Madonna – fosse un elemento di profonda unione fra i popoli, non importa se provenienti dall’Ecuador, dal Perù o dalla Bolivia. Nonostante la percentuale di cattolici in America Latina stia diminuendo, questa sensazione di profonda unione è ancora ben viva, soprattutto tra i miei interlocutori. «Per noi l’importante è stare insieme» conferma Isidora che, con un gesto naturale e commovente, si stacca la sua spilla raffigurante il Señor de los Milagros e me la regala. Nel frattempo, piano piano, il refettorio si svuota, tra i saluti della gente e le promesse di rivedersi presto, rivolte anche a me.

Il mio viaggio nell’America Latina bergamasca, però, non può finire senza conoscere Don Mario Marossi, citato nei racconti di tutti i miei interlocutori sudamericani. «In questo momento probabilmente è nella Parrocchia di San Francesco d’Assisi, in viale Venezia» mi informa Suor Priscilla, che mi fornisce tutte le informazioni per raggiungerlo. A destinazione, mi viene incontro un ometto dagli occhi vispi, gli stessi che avevano interpellato i fedeli nella messa della mattina. Missionario per sette anni in Bolivia, don Mario è stato cappellano della Missione Cattolica Santa Rosa da Lima e oggi è conosciuto come il «parroco dei migranti». L’obiettivo del Centro è sempre stato quello di «favorire l’integrazione ma non eliminare l’identità culturale di ciascun popolo» mi spiega, mentre con lo sguardo non smette di guardarsi intorno e controllare che tutto vada bene.

«All’inizio il contesto era completamente diverso da quello di oggi, c’era la paura per la mancanza del permesso di soggiorno, per la disoccupazione, per la lontananza da casa». Allora, la Missione Santa Rosa cominciò a rispondere ai bisogni di ascolto, lavoro e alloggio dei migranti che arrivavano in Italia. Per evitare poi che le persone potessero isolarsi «la scelta della Missione è stata da subito quella di favorire il più possibile la relazione degli immigrati con le parrocchie in cui vivevano ed erano inseriti», precisa don Mario. Conoscenza e relazione sono le due parole chiave per lui: «La ricchezza e la diversità si notano nella misura in cui si mettono a confronto. Questo favorisce l’incontro fra di loro e con noi e ci aiuta ad apprezzare quanto siano belle le caratteristiche culturali di ogni singolo». Oggi la Missione Santa Rosa da Lima continua così, nel tentativo di favorire una vera accoglienza, che non sia quindi solo «accettazione passiva», ma vero incontro.

La nostra chiacchierata viene intervallata dai saluti delle persone che animano la parrocchia di San Francesco: serbi, cubani, nigeriani e tanti altri, forse gli stessi che alla prima domenica del mese partecipano alla messa internazionale. Un mosaico di culture alle porte di Bergamo. Vorrei scattargli una foto, prima di salutarlo, ma non faccio in tempo: don Mario è già scappato via per andare a giocare a carte con un anziano rimasto solo nel bar della parrocchia.

Ora capisco perché tutti della comunità sudamericana lo avessero citato almeno una volta nei loro racconti.

(Tutte le foto sono di Federica Pirola)

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