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Luca Scardulla e Federico Robbiano, dalla falegnameria a uno studio architettonico

Articolo. Luca Scardulla e Federico Robbiano sono i fondatori di LLABB, studio architettonico con sede nel centro storico di Genova. Il loro percorso professionale affascina, perché più di una volta si trova ad affrontare in modo coraggioso e intraprendente le difficoltà fisiologiche di un ambiente sempre più competitivo ed esigente

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Il ’cuore’ dello studio architettonico LLABB

Da neolaureati, Luca Scardulla e Federico Robbiano hanno deciso di unire le forze in un laboratorio di falegnameria, che ha permesso loro di acquisire l’esperienza che cercavano senza dover sottostare al modus operandi tipico di uno studio tradizionale italiano. Il loro laboratorio è sfociato quasi fisiologicamente in uno studio di architettura , che continua ad espandere la scala dei lavori, la struttura e la squadra. Quest’ultima, in particolare, è considerata fondamentale, più dei talenti o delle vocazioni individuali.

L’auto commissionarsi il lavoro giusto al momento giusto ha portato consapevolezza al team, oltre che un rifugio estivo immerso nei boschi della Valle Trebbia e fruibile da tutti i collaboratori dello studio.

ST: Partiamo dal nome. Il vostro è minimale ma cela dettagli importanti, come le doppie consonanti.

S&R: LLABB nasce quasi per sbaglio dall’idea di un’amica che si occupa di grafica e comunicazione, e che ci ha proposto una sorta di crasi dei nostri cognomi Scardulla e Robbiano e una fusione con «lab», che ovviamente sta per laboratorio. LLABB richiama le nostre origini, quando 9-10 anni fa siamo partiti come un laboratorio vero e proprio di falegnameria, occupandoci di disegno, progettazione e realizzazione di librerie, sedie e mobili su misura.

ST: Federico praticava già la falegnameria come hobby e Luca con un approccio più concettuale. Oggi, nello studio di architettura, si vede il risultato di questa fusione in continua evoluzione.

S&R: Non avevamo clienti, quindi abbiamo iniziato a guadagnare esperienza come falegnami. Questo ha funzionato anche a livello comunicativo, quando siamo passati ad affrontare progetti più ampi, come le ristrutturazioni. Anche quando abbiamo cominciato a delegare la falegnameria vera e propria ad altri, abbiamo mantenuto l’attenzione alla materia, di diversa natura, a come sono fatte le cose e alla loro funzione. Le imprese e gli artigiani con cui lavoriamo riconoscono ancora questa nostra sensibilità, che difficilmente trovavano nelle generazioni precedenti, molto più legate all’idea che alla mera realizzazione. Questo astrattismo ha fatto danno alla professione, rendendo l’architetto una sorta di “anti-ingegnere” che pensa a cose impossibili. Siamo stati anche fortunati ad avere rapporti di lavoro con maestranze molto disponibili nei nostri confronti, dalle quali poter ascoltare e imparare. Eravamo e siamo delle spugne e abbiamo sempre cercato di evitare di apparire come giovani scapestrati o arroganti.

ST: Facciamo un passo indietro: raccontatemi come siete arrivati all’idea di aprire il vostro laboratorio.

S&R: Dopo la laurea presso il Politecnico di Genova, abbiamo avuto esperienze separate. Luca, ad esempio, ha lavorato sei mesi in Danimarca, dove è stato ispirato dalla flessibilità, dal mood e dall’approccio quotidiano al lavoro, ma dove ha comunque colto una forte competizione anche interna allo stesso studio. Tornato in Italia, ha lavorato per altri sei mesi presso un classico studio di architettura italiano, a Brescia, con orari di lavoro pressoché inesistenti e l’individualità dei singoli al centro dei lavori. Queste esperienze ci hanno spinto verso un progetto diverso. Ci siamo fatti la gavetta, ma rimboccandoci le mani e dandoci da fare in prima persona. La nostra filosofia ha a cuore la cura e l’attenzione per il dettaglio, ma anche l’interrogarci sui motivi che sorreggono le nostre opere. Per questo era importante che ci fossimo noi dietro al nostro lavoro.

ST: E poi il laboratorio è cresciuto gradualmente, ampliando la scala dei lavori ed evolvendo, quasi di conseguenza, in uno studio di architettura.

S&R: Ora in studio siamo addirittura in dodici. Abbiamo iniziato in falegnameria con l’allestimento di un bar dieci anni fa, noi due. Abbiamo fatto qualche altra esperienza individuale e poi nel 2016 c’è stata la svolta con il progetto «Riviera Cabin», primo vero lavoro di ristrutturazione che ci ha permesso di unire l’architettura d’interni con la falegnameria. Questo slancio ci ha portato a dover assumere collaboratori. Si è rivelata la scelta giusta, perché ci siamo trovati a fare esperienza anche di management: abbiamo iniziato a pensare al benessere e al work-life balance di altre persone che in qualche modo dipendevano da noi. Non è stato facile, ma abbiamo cercato di responsabilizzare fin da subito i nostri collaboratori, anche dividendo i pochi utili iniziali, per far sentire tutti parte di un sistema, quasi fossimo una famiglia.

ST: Com’è costituito oggi LLABB?

S&R: Oltre a me e Federico ci sono otto architetti, di cui tre project leader, un designer e un office manager. L’essere squadra è una delle nostre doti migliori e richiede innanzitutto organizzazione. L’essere maniacali nell’organizzazione, anche con programmi e software di gestione commesse è fondamentale per mantenere lisci gli ingranaggi tra le diverse figure dello studio. Inoltre, uno strumento di crescita del gruppo che abbiamo imparato durante gli anni da scout e che abbiamo introdotto nello studio comporta un confronto programmato, ogni tre mesi, tra tutti i componenti, di fronte a un aperitivo. La condivisione aperta ha dato i suoi frutti e ci aiuta a superare in modo sereno le difficoltà.

ST: Federico, che consiglio daresti a un giovane aspirante architetto del Politecnico di Genova?

FR: Da piccolo ho sempre voluto fare l’architetto. Un giorno in camera mia entra un amico di mio padre, l’allora presidente dell’ordine, e mi suggerisce di lasciare perdere, di non fare l’architetto, nonostante lui e la sua generazione abbiano goduto degli anni d’oro dell’architettura. Noi invece abbiamo iniziato la professione in un periodo critico, eppur non mi sono mai pentito, le sue parole mi hanno solo stimolato e convinto ancora di più. Di sicuro è fondamentale crederci, perché la concorrenza è spietata; bisogna rimboccarsi le maniche e trovare la propria via. A uno studente italiano diremmo di fare tesoro di ciò che impara ai corsi, spesso caratterizzati da un background di cultura e storia molto importanti. Di contro, il mondo accademico italiano presenta una certa reticenza ad insegnare lati pratici del lavoro, come ad esempio affrontare i bandi. Per questo bisogna avere l’umiltà di riconoscere che, quando si esce dall’università, non si è ancora nessuno e questo non deve spaventare, anzi, deve spingere a mettersi sempre in discussione e a mettersi a disposizione di studi professionali, senza alcuna arroganza, per completare il proprio percorso formativo. Consigliamo anche di mettere le mani in pasta, di esplorare il lato pratico. Con noi ha funzionato, più dei concorsi, ai quali abbiamo partecipato raramente sempre con poche velleità di vittoria, anche per l’elevata competitività e la poca concretezza degli stessi.

ST: Luca, tu che consiglio daresti?

LS: Non sopporto quando si dice «Non è possibile, non si può fare». Non dico che tutto sia fattibile, ma l’escluderlo a priori, per abitudine o comodità, preclude una possibilità di crescita. Ad esempio, il main core del nostro studio sono ancora le ristrutturazioni, spesso utilizzando marchi e prodotti ricorrenti, ma quando possibile proviamo ad uscire dalla nostra comfort zone, perlomeno in fase di valutazione e di analisi, perché si cresce anche nel processo, non solo raggiungendo l’obiettivo.

ST: Un progetto che vi rappresenta? Immagino «The Hermitage», ideato e costruito quasi più da un’esigenza vostra. Perché fare architettura alla fine è un’arte, quindi spesso bisogna avere qualcosa da dire, anche a sé stessi.

S&R: «The Hermitage» è la massima espressione del nostro essere architetti. Non avevamo ancora un edificio costruito da noi, quindi abbiamo deciso di non aspettare che ci venisse commissionato. Ce lo siamo costruiti da soli. Abbiamo approfittato di quest’idea per trasmettere ai nostri quattro collaboratori l’approccio learning by making, oltre che trovarci ad affrontare una sfida di vero team building. Abbiamo progettato la struttura e abbiamo passato due settimane di “ritiro”, costruendolo insieme e dormendo nella stessa casa. È stata un’esperienza bellissima, emblema del nostro fare architettura. «The Hermitage» è una struttura che utilizziamo ancora, per un tradizionale retreat annuale dello studio. Inoltre, ognuno di noi dodici può sfruttarla per godersi i boschi della Val Trebbia per un weekend. L’artista fa soprattutto per sé, seguendo ciò che ha dentro e che lo smuove. Noi cerchiamo di farlo anche con i progetti commissionati, facendo nostre le richieste dei committenti. Non è sempre facile, perché ci vuole un approccio propositivo e permeabile anche da parte del cliente.

ST: «The Hermitage» è un rifugio completamente in legno, immerso nella natura. Avete qualche linea guida riguardo alla scelta dei materiali?

S&R: Per la scelta dei materiali partiamo sempre dal contesto, applicando pensiero e fattibilità. Purtroppo, spesso l’architettura si snatura rispetto al contesto in cui si trova e vengono realizzate opere completamente slegate dal luogo che le circonda. Il tema del Genius Loci ci sta a molto a cuore. Il contesto in cui si realizza un’opera potrebbe essere rispettato anche in modo moderno, come è successo per il Bosco Verticale di Boeri Studio, con la convivenza di calcestruzzo armato e duemila specie arboree, ispirato all’abitudine dei milanesi di rendere i propri balconi molto verdi con piante o fiori.

ST: Ci raccontate una vostra recente esperienza?

S&R: Abbiamo realizzato una villetta nel centro del Marocco, Villa Jamal, in cemento e pietre. Crediamo che il cemento si sposi magnificamente con il legno. Ci piace in particolare il fatto che questo possa essere colorato in pasta, arrivando quindi ad integrarsi, se bene utilizzato, in modo armonioso con il contesto in cui si inserisce. In Marocco, non siamo stati fisicamente, in quanto il progetto ha avuto inizio nel periodo della pandemia. Ci siamo documentati sull’architettura marocchina e abbiamo scoperto che l’architettura locale è stata uccisa dalle influenze esasperate occidentali e dalla visione del benessere europeo, che ha portato alla diffusione di un’architettura asettica e slegata dal territorio. Abbiamo quindi studiato i Riad, la posizione e la dimensione delle stanze e dei saloni tradizionali, strettamente legati alla cultura locale. Ci è venuto quindi spontaneo applicare quanto appreso al nostro progetto. Sembrava non esserci spazio di manovra con il committente, ma alla fine si è innamorato della nostra idea.

ST: Quali sono le vostre sfide e obiettivi futuri?

S&R: Stiamo lavorando sul prossimo salto di scala. Falegnameria, ristrutturazioni, e ora vorremmo essere più presenti nell’ambiente pubblico. Aumentare la scala ci permette di rendere il nostro lavoro più sostenibile, e darebbe maggior respiro alla comunicazione e alla narrazione dei nostri lavori. Abbiamo molte idee, tra cui rendere replicabile l’«Hermitage», e anche promuovere la formazione, al di fuori dello studio, per giovani studenti ai quali poter dare consigli pratici basati sulla nostra esperienza e sul nostro particolare approccio. Ci piacerebbe condividere quanto imparato in questi anni, non solo dal punto di vista puramente architettonico, ma anche gestionale, inclusa l’importanza di creare una squadra solida, con una comunicazione ottimale e con i conti che tornano.

Luca e Federico hanno le idee chiare, un approccio moderno e all’avanguardia, che sembra pescare sfumature tipiche dei paesi nord-europei con i loro concetti di wellfare e well-being, ma allo stesso tempo rimangono ancorati saldamente ai dettagli e alle loro radici artigiane. La crescita ricorda la risalita graduale di una scala, che vede proprio i giovani architetti pronti a costruire il prossimo piolo.

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