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Omar Fantini: «sono convinto che si possa fare comicità su tutto»

Intervista. Il comico bergamasco, oltre alla radio e alla tv, porta avanti ormai da parecchi anni «Ridi’in’Garage», un laboratorio dove comici più o meno affermati ed esordienti sperimentano nuovi pezzi davanti a un pubblico pagante

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Omar Fantini (foto Luigi Residori)

Dall’anno scorso lo spettacolo si svolge al Druso di Ranica: il primo appuntamento di quest’anno sarà il 21 settembre (ore 21.30, ingresso 13 €, prenotazioni 333.1246610; poi il 12 e 26 ottobre e il 9 e 23 novembre). Ne abbiamo parlato con il diretto interessato e ci siamo fatti raccontare alcuni trucchi-base della comicità e la sua idea sull’opportunità o meno di ridere su questioni delicate. Come la disabilità.

LB: «Ridi’in’Garage» esiste dal 2009. Ce lo vuoi raccontare un po’?

OF: Ci siamo trasferiti al Druso dopo che per molti anni abbiamo fatto questa cosa in un locale che sembrava un garage, dove “customizzavamo” i nostri repertori comici. Il Druso è una casa spettacolare come tempio della musica, un posto accogliente con un bel palco e il tutto è coerente perché noi siam molto rock’n’roll, diciamo. «Ridi’in’Garage» nasce con l’idea di essere un laboratorio, un posto dove i comici vengono a provare i loro pezzi, che poi trovano una collocazione in tv o magari nei loro spettacoli live. Negli anni il cast si è consolidato, inizialmente era molto variabile, invece adesso c’è un cast fisso per tutto l’anno a cui si sommano volta per volta ospiti diversi. Di fatto è uno spettacolo vero e proprio, c’è il pubblico e ogni volta i contenuti dello show cambiano, quindi ad ogni appuntamento è possibile vedere uno spettacolo diverso.

LB: È possibile assistere agli spettacoli ma anche partecipare allo show con il proprio pezzo. Quali sono i criteri per partecipare?

OF: Per scelta artistica mia, portata avanti negli anni, mi piace molto che «Ridi’in’Garage» sia un campo libero, quindi non voglio vedere i pezzi prima che i comici li facciano. Ci sono persone di varia estrazione: esordienti totali, che salgono sul palco per la prima volta, qualcuno che ha già provato a far qualcosa e vuole verificare, così come comici affermati che hanno voglia di provare qualcosa di nuovo in un bell’ambiente insieme ad altri colleghi. È importante provare un pezzo con pubblici diversi, perché magari funziona a seconda delle persone che hai davanti, in questo modo è possibile raggiungere uno standard buono per il testo che stai facendo.

LB: Quest’idea del laboratorio fa della comicità un lavoro quasi artigianale. Ogni artigiano ha dei trucchi: hai voglia di svelarci un paio di trucchi-base utili a chi fa il comico?

OF: Ci sono dei trucchi che funzionano sempre: per esempio quando fai una battuta che non funziona l’ammettere che la battuta fa schifo e dire «ok questa la tolgo» suscita sempre molto ilarità, è una strategia che funziona quando le cose non vanno come devono andare. Un altro stratagemma è quello di coinvolgere il pubblico, per esempio quando incolli addosso a uno della prima fila un personaggio di cui stai parlando, sai già che renderà molto di più. Tipo: se faccio un pezzo su uno che ha una camicia brutta e in prima fila c’è uno con una camicia brutta, lo coinvolgo e il pezzo funzionerà di più. Sono trucchi da usare anche in contesti non teatrali, tipo le cene, dove è necessario attirare l’attenzione della gente.

LB: E un difetto che hai visto ricorrere in questi anni?

OF: Il peggior errore che fanno gli esordienti è arrivare sul palco non preparati, senza aver memorizzato il testo che hanno scritto. La memoria è un elemento fondamentale quando fai un pezzo, lo devi sapere perfettamente perché ciò ti permette di tagliare subito parti che avverti non funzionare e dunque andare da un’altra parte. Inoltre l’incertezza sul palco è assolutamente da evitare, non crea divertimento. A meno che non ci sia qualcuno accanto a te che ti fa notare questa cosa, ma a quel punto non sei più il comico ma il mezzo per cui la gente ride. Questa è una delle cose su cui mi permetto di fare osservazioni agli esordienti. La memoria richiede dedizione: quando scrivi un testo di solito è facile memorizzarlo, perché l’hai scritto. Ci sono persone però che devono leggerlo cento volte per farlo entrare in testa.

LB: Che cosa invece non può essere oggetto di ironia? In altre parole, quando le battute possono diventare «a sproposito»?

OF: Eh guarda, questo è un bel tema. Tra l’altro io ci sono passato in mezzo l’ottobre scorso per un pezzo sui ciclisti che ha suscitato tante polemiche sui social e sui giornali. Parlo da comico, quindi il mio pensiero può essere viziato dalla mia professione: io credo che sia impossibile mettere una linea oltre la quale non si può fare comicità. È molto difficile perché la comicità e il rapporto con il pubblico è fatti di sfumature più o meno importanti per la singola persona: ciò che per me è estremamente importante, per te non può contare nulla. E quindi è una cosa è soggettivo. Perciò penso che l’unico modo in cui trovare un punto comune è chiedersi se si può fare comicità su tutto o su nulla. Io sono convinto che si possa fare comicità su tutto, poi che la comicità fatta su tutto non vada bene a tutti siamo d’accordo. Ma sarebbe come vietare la musica “pettinata”, che a me personalmente non piace, ma alla gente piace tantissimo.

LB: Tutto o nulla, ma anche come ti “arriva” la comicità.

OF: Certo, questo è il problema di fondo. Sappiamo tutti che esistono la comicità cinica, la comicità nera, l’humour inglese che fa comic sulla morte, la malattia, la disabilità etc. Per loro culturalmente è un modo di esorcizzare la paura verso questi aspetti della realtà. Considera che il mondo anglosassone festeggia Halloween e le persone si travestono da demoni. Noi al contrario festeggiamo Santa Lucia, tendiamo a essere più rassicuranti, mentre gli inglesi sono più destabilizzanti. Trovo, ad esempio, che non poter fare comicità sulla disabilità sia ghettizzante e discriminatorio per i disabili stessi. Perché il pensiero comune tende a proteggere i disabili, il pensiero è «oh poverini, almeno non facciamo battute su di loro visto come sono messi». Ma è una cosa che è sbagliatissima.

LB: Perché?

OF: Ti faccio un esempio: io faccio parte della Nazionale artisti e lavoriamo con la Nazionale sport invernali paraolimpici e mi diverto molto, perché innanzitutto quando gareggiamo non ho mai vinto una gara con loro. Ci sono ipovedenti che mi danno centinaia di metri in discesa, quindi in qualche modo in quella situazione il disabile sono io nei loro confronti, e mi fanno battute tipo «ci vediamo giù, eh» o ironizzano su come in una discesa con nebbia la mia e la loro condizione sia “alla pari”. E poi sulla disabilità queste persone disabili ci scherzano sempre, si rapportano spesso tra di loro attraverso l’ironia, perché è un modo di liberarsi delle paure. Se un disabile mi dice «no, questa battuta no» è un conto, ma la difesa della categoria è solo un fatto di perbenismo e moralismo da parte di persone che credono di vivere una vita migliore dei disabili. Capita poi che per una battuta forte di un comico gli altri colleghi si schierino contro la battuta, ritenendola di cattivo gusto. Gli stessi comici che magari qualche mese prima inneggiavano alla libertà di espressione.

LB: Da quest’anno i comici che parteciperanno a «Ridi’in’Garage» seguiranno il filone della stand-up comedy. Come mai questa scelta?

OF: Ti dico la verità: noi facciamo stand-up comedy da almeno quindici anni. La stand-up comedy ha come caratteristica quella di avere poche censure, sia a livello linguistico che contenutistico, come accade da noi. Ora questa parola, stand-up comedy, è sulla bocca di tutti. Ma in America e Inghilterra significa semplicemente «comicità». È la versione anglofona del nostro cabaret, con la differenza che la stand-up comedy si fa in piedi con il microfono senza bisogno di scenografie e suppellettili. Il cabaret si chiamava così dal nome dei locali dove si faceva vaudeville. È solo questione di linguaggi, oggi che la parola è così diffusa, che noi ci siamo in qualche modo adeguati.

LB: I comici sono tutti uguali? Sempre ironici, su e giù dal palco.

OF: No, io dico sempre che i comici si dividono in due categorie: i comunicatori, come me, e gli artisti. I comunicatori sono quelli che rimangono uguali anche quando sono giù dal palco. Gli artisti sono quei comici che scelgono la comicità perché fanno fatica a comunicare nella vita, quindi quando scendono dal palco non è che se la tirano, è che spesso sono introversi, insicuri e quando scendono dal palco non hanno più quel controllo che avevano durante lo spettacolo.

LB: «Ridi’in’Garage» dà la possibilità a tante persone di esordire, provare, sperimentare. Tu come hai cominciato?

OF: Con il teatro, a sedici-diciassette anni mi è venuta questa curiosità verso il mondo del teatro, quindi ho frequentato la scuola del Teatro Prova. Poi sono andato ad una scuola di teatro di Milano e lì una sera mi hanno detto se avevo voglia di andare a vedere i comici del Lab Scaldasole. La cosa mi piacque molto, proposi un mio pezzo e iniziai a crescere in questo laboratorio, in cui cominciai a vedere che la mia comicità andava sempre meglio. Così entrai nel cast fisso, che comprendeva gente come la Pozzoli e De Angelis, i Pali e Dispari, i Turbolenti, Debora Villa che all’epoca era nei Due di Picche, tutta la new wave di quel generazione che ha fatto parte di Zelig e Colorado. Parallelamente ho continuato a fare spettacoli in teatro, ho mollato quando è iniziata la parte legata alla televisione. Insomma anche io, come comico, sono nato in un laboratorio.

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