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«Immaginare la storia»: (ri)conoscere il passato coloniale per leggere criticamente il presente

Articolo. Edito da Ombre Corte, «Immaginare la storia. Abbecedario del colonialismo italiano» è un’antologia di saggi curata da Federica Sossi, docente all’Università di Bergamo, dedicata soprattutto a studenti e giovani, per riflettere sul colonialismo italiano come grande rimosso della nostra storia contemporanea. A partire dal romanzo «Il re ombra» della scrittrice etiope Maaza Mengiste

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Un dettaglio dalla copertina del libro «Immaginare la storia. Abbecedario del colonialismo italiano»

Uno spettro si aggira (non solo) per l’Europa, verrebbe da dire. Lo spettro degli studi post-coloniali, che con sempre più energia stanno rilanciando al centro del discorso pubblico una serie di questioni importanti, delicate. E scomode, perché mettono in discussione le (presunte) certezze, chiedono una rinegoziazione delle posizioni, delle egemonie, una critica dell’approccio eurocentrico e occidentale di gerarchizzazione delle identità culturali. È qualcosa che riguarda con forza anche l’Italia, in particolare rispetto al passato coloniale di cui, tendenzialmente, non si sa molto: poche idee e ben confuse, come si dice in certi casi. Da noi un caso principe è stato il dibattito sulla rivalutazione della figura di Indro Montanelli , sulla scorta delle sue vergognose cronache “amorose” durante la Guerra d’Etiopia del 1935-41.

Proprio attorno al tema del colonialismo italiano in Etiopia e alla sua eredità nel presente, si muovono i contributi dell’antologia curata da Federica Sossi, docente di Estetica all’Università di Bergamo: «Questo libro è una raccolta di saggi che hanno tutti un elemento in comune: il magnifico romanzo di Maaza Mengiste, “The Shadow King”, “Il re ombra”» scrive Sossi nell’introduzione. «[Il romanzo] ripercorre i giorni dell’invasione fascista dell’Etiopia, la resistenza etiope, l’importante ruolo delle donne in essa, e che, tra realtà e finzione, ci permette di ritornare a quella storia, con lo stupore infantile dinanzi a ciò che fino allora si ignorava. A partire dal suo romanzo, abbiamo pensato che fossero necessari alcuni approfondimenti: sulle donne e il colonialismo, sugli archivi coloniali, sui musei e la decolonizzazione, sull’uso della fotografia nell’invasione coloniale».

Uno strumento utile per riflettere sui meccanismi di rimozione del passato. «È un tema che loro non hanno minimamente considerato, probabilmente non vedono il nesso che vedete voi» ha risposto Giorgia Meloni durante la sua visita ad Addis Abeba, lo scorso aprile, a una domanda di un giornalista che le chiedeva se avesse avuto modo di scusarsi per i crimini commessi dagli italiani. Un passato rimosso, ma in cui siamo continuamente immersi, che c’è ma non riusciamo a vedere – a proposito – ma le cui tracce sono ingombranti, e puntellano il nostro immaginario, la nostra “postura” culturale.

Ce ne sono praticamente ovunque. Strade, piazze, monumenti, palazzi. Un progetto del collettivo Wu Ming, « Viva Zerai! », ha provato a mapparle, così come « Postcolonial Italy ». Ne abbiamo anche a Bergamo, lo sappiamo. Il complesso turistico Sassabanek sul lago d’Iseo, ad esempio, deve il nome a una località della Somalia, Sassabaneh, bombardata con l’iprite nell’aprile del 1936 (l’iprite è un gas tossico ampiamente utilizzato in Libia e in Etiopia dagli italiani). Oppure la costellazione di vie dedicate all’aviatore-criminale Antonio Locatelli, e il monumento, l’affresco di Palazzo della Libertà, la scuola superiore. Su questo tema è interessante segnalare il « Progetto Adriana », una rete civica che propone di riassegnare alla partigiana Adriana Locatelli tutti gli spazi dedicati all’aviatore fascista: nessuna cancel culture (che non esiste, in realtà) ma pratica di memoria attiva.

Si pensi anche al sacrario di Affile, provincia di Roma, costruito con fondi pubblici e dedicato a Rodolfo Graziani, generale fascista soprannominato «il macellaio del Fezzan» per le stragi indiscriminate e le torture ordinate in Libia e poi in Etiopia. All’inaugurazione, nel 2012, non è mancato Francesco Lollobrigida, attuale ministro dell’agricoltura, all’epoca assessore regionale: «Per noi della Valle Aniene l’affetto per il generale Rodolfo Graziani è stato sempre un punto di riferimento» ha poi dichiarato, alla faccia del “non si può più dire niente”.

Queste scorie non riguardano solo la materialità degli spazi fisici pubblici, ma si articolano anche in quelle che la scrittrice etiope Linda Yohannes definisce « forme di mentalità coloniale », che sopravvivono alla contingenza degli eventi e si depositano nell’inconscio collettivo, favorendo posture storte ai temi del presente – le migrazioni dall’Africa, ad esempio. Si corre così il rischio di “sclerotizzare” quel processo memoriale che Isabella Pasqualetto definisce «negoziazione tra ciò che vogliamo ricordare e ciò che vogliamo dimenticare, tra ciò che vogliamo vedere – e far vedere – e ciò che vogliamo tenere nascosto». Che è poi un grande tema del romanzo di Mengiste. Il mito degli “italiani brava gente”, del colonialismo rispettabile, civilizzatore, eroico; “l’etnia italiana” nipotina della vecchia “stirpe italica”, o “la comunità di destino”: tutte mandibole voraci che all’eventualità rimasticano la memoria, la storia, e sono normalizzate da un atteggiamento che non sa (o non vuole) essere critico ma autoassolutorio, se non addirittura celebrativo.

Già noto è il caso della Marina Militare che celebra le battaglie fasciste; ma è emblematico come le vicende dell’invasione dell’Etiopia siano raccontate sul portale dell’Arma dei Carabinieri: senza tematizzazione, senza un accento critico sulla drammaticità degli eventi. In chiusura è riportata la motivazione per cui la Bandiera dell’Arma fu insignita (nel 1937) della Croce di Cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia per la sua partecipazione alle operazioni: «Durante tutta la campagna, diede innumerevoli prove di fedeltà, abnegazione, eroismo; offrì olocausto di sangue generoso; riaffermò anche in terra d’Africa le sue gloriose tradizioni; diede valido contributo alla vittoria».

È opportuno continuare a celebrare, con questa retorica, gesta o persone o eventi che hanno causato morte, distruzione, sfruttamento, disperazione, instabilità, e lasciato ferite ancora aperte a 90 anni di distanza? È opportuno rivendicare il proprio valore in relazione all’eroismo dimostrato in una guerra di invasione genocida? La sensazione che il solo porre queste domande all’interno di un discorso pubblico possa, paradossalmente, provocare l’accusa di gettare discredito sulle istituzioni o sulle forze dell’ordine è un elemento che racconta altrettanto bene la dimensione del problema. E non sarebbe una novità, ahinoi. Un film come « Il leone del deserto », colossal sulla figura di Omar Al-Mukhtar e sulle principali vicende della “riconquista della Libia” del regime fascista, all’uscita nel 1981 fu censurato in Italia (è stato trasmesso per la prima volta solo nel 2009): «danneggia l’onore dell’esercito» dichiarò a riguardo Giulio Andreotti.

Ancora oggi, forse più che mai, è fondamentale allora trovare percorsi condivisi e aperti di analisi critica delle narrazioni del passato e delle dinamiche politiche che le permeano. In un presente di nuove sensibilità e consapevolezze che hanno un respiro internazionale – e in virtù della grande spinta rinnovatrice che hanno dato il movimento «Black Lives Matter» e tutta una galassia di realtà giovani dentro l’alveo dei cosiddetti cultural studies, come « Monument Lab », « Decolonize This Place » – serve interrogarsi senza sosta sul passato per imparare a leggere criticamente il presente: senza timori, senza paura di guardarsi allo specchio. Per fare i conti apertamente con quello che siamo stati e con le modalità che oggi abbiamo di rappresentazione e rimozione di quella storia. In gioco c’è quello che vogliamo essere, i valori sui quali vogliamo costruire il futuro, e su cui si fonda l’autorevolezza e la dignità delle istituzioni che ci rappresentano. È una questione di “giustizia riparativa”, che deve farsi processo collettivo e partecipato. Come? A partire da cosa o da dove? «Immaginare la storia» prova a tracciare delle direttrici, aprire squarci, stimolare riflessioni, divulgare conoscenze.

Ecco: la conoscenza, prima di tutto. La consapevolezza del problema, le prospettive storiche, fondamentali per avere gli strumenti utili ad affrontare la complessità del presente. Soprattutto in Italia, scrive Federica Sossi, «siamo stat* immers* nella costruzione di una dimenticanza, per cui di che cosa sia stata l’impresa coloniale italiana ne sappiamo davvero poco». È importante dunque “far parlare gli archivi”, capire come il nostro sguardo sia viziato da un immaginario coloniale che si infila negli interstizi del modo di guardare l’altro, il diverso. «Visioni egemoniche» le definisce Gianmarco Mancosu nel suo intervento sul ruolo della fotografia come arma dell’invasione coloniale: «La connessione tra potere coloniale e sua rappresentazione è decisiva per spiegare come si è costituita la modernità occidentale in relazione all’espansionismo». In questo senso, è notevole il caso del « progetto 3541 », archivio di fotografie «condivise da familiari e persone care di coloro che hanno vissuto durante la guerra del 1935-41 tra Etiopia e Italia (...), uno sforzo artistico ed educativo che utilizza storie scritte, visive e orali per fornire una prospettiva intima sulle conseguenze globali e personali della guerra italo-etiope del 1935-41».

Serve agire nei luoghi dove la storia si insegna e si racconta: le scuole, i musei. Le prime, dove mancano programmi di approfondimento del colonialismo: «È la parte più istituzionale della costruzione di un oblio» scrive Sossi, «la sistematica costruzione di un non sapere che non viene riconosciuto come tale, perché ci si può tranquillamente laureare in una facoltà umanistica e non saper elencare gli Stati delle imprese coloniali italiane. Generazione dopo generazione, perché nemmeno io dopo la laurea e il dottorato in filosofia avrei saputo rispondere». E i secondi, i musei, i cui processi di decolonizzazione sono raccontati da Anna Chiara Cimoli, a sua volta professoressa all’Università di Bergamo, riflettendo su come quegli spazi oggi, tra forti resistenze, sono chiamati «a ripensare con coraggio la propria postura dentro la società, per non ripetere gli errori del passato», ad aggiungere voci e prospettive, cedere potere, coinvolgere e interagire con le diversità.

C’è poi un bellissimo contributo di Angelica Pesarini sul tema della predazione sessuale, del madamato, nel tentativo di illustrare «la complessità del discorso coloniale su razza e genere» attraverso l’analisi delle relazioni tra italiani e donne etiopi, anche nei casi finiti in un tribunale (dal 1937 vigono le leggi razziali in Etiopia, laboratorio di segregazione che poi colpirà gli ebrei in Italia l’anno seguente). Un contributo che ha anche il merito di riportare l’attenzione su uno dei grandi valori del romanzo di Mengiste, «Il re ombra»: mettere in relazione colonialismo e patriarcato.

Scopriamo così che i due fenomeni sono come fatti della stessa sostanza: la conquista e il controllo della terra sottendono dinamiche di sopraffazione che coincidono con la “conquista” e il controllo del corpo femminile. E i corpi diventano così “campi di battaglia”. È qualcosa di attuale anche oggi, si declina in molti modi. Un’altra delle tante tracce-scorie. Non resta che continuare a cercarle, e metterle in luce.

«Immaginare la storia. Abbecedario del colonialismo italiano» sul sito di Ombre Corte. Con contributi di Anna Chiara Cimoli, Gianmarco Mancosu, Maaza Mengiste, Gabriele Montalbano, Angelica Pesarini, Gabriele Proglio, Zara Rahman, Federica Sossi, Alessandro Triulzi, Linda Yohannes.

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