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La scrittura e la memoria: Natalia Ginzburg e il suo «Lessico famigliare»

Articolo. È il libro del mese di maggio dei gruppi di lettura della Biblioteca di Albino. Vincitore del Premio Strega nel 1963, un classico della memorialistica in cui le storie e il gergo di famiglia diventano letteratura

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Natalia Ginzburg, Rhêmes Notre-Dame, 1978 (foto Archivio Agnese Incisa)

Non è certo storia nuova la vitalità dei gruppi di lettura che animano le biblioteche bergamasche. Avevamo già raccontato le realtà di Treviglio come esempio emblematico di un’organizzazione di lettori veramente ben diffusa e composita. Ed è confortante sapere che, nonostante il complicato biennio appena trascorso, vi sia ancora la voglia di spegnere gli schermi, uscire di casa e incontrarsi nei luoghi di cultura. Soprattutto perché – secondo il rapporto BES di ISTAT 2022 – tra il 2020 e il 2021 «il decremento della partecipazione culturale fuori casa è risultato trasversale su tutto il territorio nazionale».

Certo, si penserà, vanno considerate le chiusure, le accessibilità limitate. Eppure sembra vi sia ancora difficoltà nel recuperare il tono delle abitudini culturali, evidentemente ancora sclerotizzate dall’incertezza e dalle dinamiche della pandemia. Ed è un fenomeno che ha interessato direttamente anche le biblioteche.

È quanto mai importante quindi continuare a promuovere il circolo virtuoso dei gruppi di lettura, e in generale la frequentazione fisica delle biblioteche di città, di paese, di quartiere. Durante il mese di maggio, ad esempio, si leggerà Ernest Hemingway a Curno, Emmanuel Carrère a Treviglio, Ignazio Silone a Bonate Sotto, Alessandro D’Avenia a Sarnico, Fëdor Dostoevskij a Boltiere, Marco Balzano a Bagnatica, Diego De Silva e Ivo Andric alla Tiraboschi di Bergamo città. E «Lessico famigliare» di Natalia Ginzburg ad Albino. Proprio quest’ultimo, vincitore del Premio Strega nel 1963, è forse il romanzo con cui culmina la stagione del memorialismo e apre al periodo delle neoavanguardie letterarie (tra tutte, il Gruppo 63). I ricordi come strumento narrativo, lo stile neorealistico, la tensione civile, etica, morale. Si ritrova, in diverse modalità, in Silone, Pratolini, Bassani, Cassola, Carlo Levi, Stern, Meneghello, Fenoglio, Primo Levi.

E in Natalia Ginzburg. Entrata così nei classici della letteratura italiana, non solo autobiografica. «Lessico famigliare» è un esempio fulgido di come nelle pieghe della vita famigliare si possano trovare alcune delle materie prime più preziose della letteratura. Tra queste sta l’originalità linguistica. E proprio sulla lingua, sulle espressioni, sul gergo della sua famiglia – ascoltato, trascritto, tradotto per il lettore – si fonda l’architettura del romanzo. E, soprattutto, l’architettura dei ricordi. «Ricordare è puro abbandono» dichiarava l’autrice parlando del suo romanzo. È un abbandono che però serve a ritrovare il tempo perduto e le persone attraverso le memorie. Un abbandono che si prende cura, con la scrittura, di una storia che «non è la mia storia, ma piuttosto, pur con vuoti e lacune, la storia della mia famiglia».

Una famiglia ebrea, i Levi – suo padre Giuseppe era uno scienziato illustre, e nel libro ha un ruolo centrale con il suo temperamento fatto di giudizi e rimproveri, a fronte della nostalgia della madre. Una famiglia antifascista, le cui vicende si legano in modo particolarmente significativo alla Storia: l’avvento del fascismo, la solitudine e l’isolamento nella persecuzione politica, le leggi razziali, la guerra, l’incertezza nell’ebbrezza del Dopoguerra. C’è poi (soprattutto) la vita a Torino, schiacciata dal buio fascista in cui baluginano i lumi degli ultimi dissidenti, nomi scolpiti nella storia politica e culturale del nostro paese: Filippo Turati, Carlo Levi, Luigi Salvatorelli, Adriano Olivetti, Cesare Pavese – straordinarie e preziose le pagine su di lui – che in diversi modi intercettano la vita (e il soggiorno) della famiglia Levi. E Leone Ginzburg naturalmente, letterato e antifascista militante, marito di Natalia, ucciso dalle torture delle SS nel carcere di Regina Coeli nel febbraio del 1944.

È un racconto in cui le parole e le espressioni si intrecciano agli eventi, dettano il ritmo, danno forma ai ricordi, alle persone. Con un io autoriale esemplare per discrezione e misura, riconoscibile se funzionale al racconto degli altri e del contesto. «Il linguaggio è la casa dell’essere» scrisse Heidegger, e così l’autrice si fa traduttrice dell’universo linguistico della sua famiglia, mediatrice delle espressioni gergali, dei tic linguistici – da notare, in questo senso, la reiterazione del verbo “dire” – «Diceva...», «Voleva dire, nel linguaggio di mio padre...» – per connotare e mediare.

È così che le formule linguistiche, quando pronunciate, materializzano un’identità e un senso di appartenenza:

Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia. Ci basta dire: «Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna» o «De cosa spussa l’acido solfidrico», per ritrovare a un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole. Una di quelle frasi o parole, ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio d’una grotta, fra milioni di persone (...) Quelle frasi sono il fondamento della nostra unità familiare, che sussisterà finché saremo al mondo, ricreandosi e risuscitando nei punti più diversi della terra...

«Non fate malagrazie». «Non fate sbrodeghezzi». «Non fate potacci». «Non siete gente da portare nei loghi». «In questa casa si fa bordello di tutto». I «fufignezzi» sono i segreti, «dare spago» è assecondare. E via così. Probabilmente ognuno di noi troverebbe qualcosa di simile all’interno della propria famiglia. Perché, in fin dei conti, il lessico famigliare è un lessico universale.

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