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«Una remota possibilità di bene» nell’abisso del lager. Lorenzo Perrone, il muratore che salvò Primo Levi

Intervista. Lo storico e scrittore Carlo Greppi, nel suo «Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo che salvò Primo», ricompone la biografia di Lorenzo Perrone, il muratore fossanese di cui Primo Levi parla in «Se questo è un uomo», riconosciuto come «Giusto tra le nazioni» nel 1998. E che per tutta la vita Levi non ha mai smesso di considerare il suo salvatore

Lettura 6 min.
Un dettaglio del libro di Carlo Greppi

«Per quanto di senso può avere il voler precisare le cause per cui proprio la mia vita, fra migliaia di altre equivalenti, ha potuto reggere alla prova, io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi; e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo così piano e facile di essere buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno di ancora puro e intero, di non corrotto e non selvaggio, estraneo all’odio e alla paura; qualcuno di assi mal definibile, una remota possibilità di bene, per cui tuttavia metteva conto di conservarsi».

Sono poche le pagine, nel complesso della sua opera, in cui Primo Levi parla di Lorenzo. Poche ma straordinarie, gonfie di significati e di molte di quelle cose che stanno così in profondità che è difficile, forse impossibile, trasformarle in parole. Cose che tuttavia, in qualche modo, si depositano nella coscienza, si fanno capire nel silenzio, con il non detto. Dev’essere stato così per buona parte del rapporto tra i due: certe cose – aiutare in modo disinteressato, e il perché farlo quando è questione di vita o di morte nonostante si infranga la legge o si rischi la vita – non vanno spiegate, ragionate, discusse: si fanno e basta. Le ragioni si trovano dentro poche parole, nei gesti, se non nel silenzio, e ognuno le porta dentro di sé.

È l’estate del 1944 quando Primo Levi e Lorenzo Perrone si conoscono. Primo è un haftlinge, un internato, uno di quelli per cui «la storia si era fermata». Lorenzo Perrone è, invece, un civile non prigioniero, fa il muratore, lo ha fatto per gran parte della sua vita (ha quarant’anni) tra il Piemonte e la Francia. In quell’estate del 1944 lavora come “volontario” a Monowitz, a pochi chilometri da Auschwitz, per conto di una ditta italiana che collabora con il Terzo Reich: riparazioni, muri di protezione dai bombardamenti, ampliamento del campo. I due si conoscono nei pressi della «Buna», la fabbrica di gomma della I.G. Farben, la più grande azienda chimica tedesca del tempo, costruita proprio lì per sfruttare la manodopera dei campi di concentramento. Quella del lavoro è una lente attraverso la quale Levi ci ha fornito scorci suggestivi dell’umanità grezza e pura di Lorenzo (ne abbiamo parlato qui). Certo, non è l’unica.

Per mesi, Lorenzo porta a Primo e al suo amico Alberto pane e zuppa in avanzo, per Primo scrive in Italia e gli recapita la risposta, gli regala una maglia per riscaldarsi. Tutto senza voler nulla in cambio. E si badi a non pensare che sia poco, in quel contesto. «In termini concreti» scrive Levi in «Se questo è un uomo», l’aiuto «si riduce poca cosa». Ma è lui stesso a dirci «Tutto questo non deve sembrare poco». Perché quelle “semplici” accortezze hanno un valore inestimabile: «...Lorenzo era un uomo; la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo» .

Nel suo ultimo libro «Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo che salvò Primo» (Laterza, 2023), lo storico e scrittore Carlo Greppi ha ricomposto la biografia di Lorenzo Perrone. La presenterà martedì 24 ottobre alle 20.45 nella Sala Gamma di Torre Boldone, per la rassegna «Molte Fedi sotto lo stesso cielo».

MR: È evidente l’importanza di Lorenzo nella vita e, indirettamente, nell’opera di Primo Levi. Come è successo allora che, come scrivi tu, la sua storia «sia rimasta a lungo sottotraccia nella coscienza collettiva»?

CG: Nel tempo mi sono sempre più convinto del fatto che per sapere quanto Lorenzo sia stato importante nella vita e nell’opera di Levi bisogna innanzitutto conoscere bene la vita e l’opera di Levi. Evidentemente si restringe parecchio il raggio d’azione collettivo su questa vicenda. Come scrivo in vari punti, la sua rimane una vita particolarmente difficile da indagare, perché è un po’ il prototipo di quelle esistenze che lasciano poche tracce. Gli studiosi di Levi, chi più chi meno, hanno sempre sottolineato l’importanza di Lorenzo, ma essendo tali l’hanno sempre trattato come una figura importante di un’altra vita. Io semplicemente ho ribaltato il guanto dicendo: voglio provare a scrivere la biografia di Lorenzo, che ha avuto un grande amico di nome Primo Levi. Il quale ci ha permesso di avere un materiale di partenza straordinario e insuperabile proprio anche nel racconto della sua vita.

MR: Per uno storico, qual è il valore delle storie “minute”, singolari, dentro la cosiddetta grande storia? Cosa aggiungono?

CG: Io credo molto nel valore civile del mio mestiere e della storia che può ispirare del bene o mettere in guardia dal male. Vicende come questa sono molto più vicine alle persone comuni, permettono facilmente di identificarsi, al netto del fatto che Lorenzo è una persona che ha avuto tantissimi problemi, un’infanzia difficilissima, l’alcolismo, una vita in cui ha fatto a pugni con il mondo – che è poi è quello che accade alla maggior parte delle persone. Sono storie che ci parlano da vicino. E che è più difficile indagare, e questo ci dice anche molto sulla natura dell’uomo comune nella storia, che tende a passare inosservato quando la storia è fatta da tutti, in diversa misura.

MR: Come hai ricostruito la sua vita?

CG: Ho avuto quella che per lo storico è una grande fortuna, due imponenti matrici documentarie e narrative. Una è quelle quindici pagine a stampa sparse nelle 4.300 dell’opera omnia di Primo Levi che parlano di Lorenzo. L’altro è il fascicolo dello Yad Vashem attivato da Carol Anger, la biografa di Levi, attivato nel 1995, che porta al riconoscimento di Lorenzo come «Giusto tra le nazioni» nel 1998, dove ci sono anche diverse fonti primarie. È stato fondamentale anche Luca Bedino, l’archivista di Fossano [il paese di Lorenzo, ndr]: fortuna ha voluto che Lorenzo appartenesse a un piccolo centro abitato, per cui il poco che c’è è stato più facile da recuperare. C’è stata poi la memoria del borgo vecchio, dei due nipoti ancora in vita quando facevo la ricerca, e tante altre tracce sparse hanno gradualmente composto un quadro che tuttavia ha dei grossi buchi – penso soprattutto alla prima parte della sua vita, prima dell’incontro con quello che diventerà il cantore della sua figura che è Primo Levi.

MR: C’è poi il racconto del contesto in cui Lorenzo si è mosso.

CG: Lorenzo è un protagonista della storia che si muove all’interno di grandi masse di lavoratori piemontesi che vanno a lavorare in Francia, di lavoratori italiani che vanno a lavorare nel Terzo Reich, quelli che tornano in questa lunghissima tregua collettiva, quelli che hanno il contraccolpo e soffrono e poi nessuno ha raccontato. In ognuno di queste fasi della sua vita abbiamo la possibilità di avere un quadro generale di cui lui è una manifestazione particolare.

MR: L’aspetto più amaro di tutta la vicenda è che, nel Dopoguerra, quando Levi comincia a fiorire e a diventare la figura luminosa che conosciamo, Lorenzo appassisce, si lascia sommergere dal peso di ciò che ha visto ad Auschwitz. Cosa è successo?

CG: Ci sono tanti elementi, non ultimo quello anagrafico: Levi è un ragazzo con la tenace volontà di andare avanti fin da dentro il lager, con progetti, sogni, fortune, poi incontra quella che sarà sua moglie, diventa papà [ai figli darà il nome Lisa, Lorenza e Renzo, ndr], inizia subito a fare il chimico, a scrivere. Tutte le caselle di un progetto di vita di lungo periodo si riempiono. Lorenzo, invece, ha quindici anni in più, è già una persona sofferente, faceva fatica a vivere prima e probabilmente non trova più un senso da dare alla sua vita dopo averlo trovato ad Auschwitz, paradossalmente, dove aiutava. Così si lascia completamente andare, ed è commovente il fatto che Levi cerchi in tutti i modi di ricambiare l’aiuto che ha ricevuto.

MR: È Lorenzo però che non vuole essere salvato.

CG: È la differenza grossa, oltre al fatto che prima erano ad Auschwitz e dal 1945 invece nell’Italia in tempo di pace. Si fa aiutare un po’ ma tendenzialmente vuole lasciarsi andare e Levi, pur volendo ricambiare l’aiuto, non riesce a farlo.

MR: È come se non potendo più aiutare, fare del bene, si abbandonasse.

CG: Sì, la sensazione è questa ed è un’intuizione di Carol Anger, quella per cui non è tanto per ciò che ha visto che si lascia andare, quanto per il fatto che non riesce più ad aiutare.

MR: La sua vicenda ci parla anche di una predisposizione alla solidarietà che avevamo ma che, un po’ come una memoria, abbiamo rimosso?

CG: Rispondendo da storico, non è un caso che una figura come Lorenzo sia stata “dimenticata” da molti, troppi, per più di settant’anni. Sicuramente ora il mondo è piano di persone come Lorenzo, probabilmente la maggior parte di questi non li vediamo, li vedranno gli storici tra chissà quanto tempo. Era una domanda che mi ero fatto anche lavorando sulla frontiera dell’arco alpino occidentale che Lorenzo passava continuamente negli anni precedenti ad Auschwitz. Ci sono delle belle storie di salvataggio di ebrei in fuga, di italiani migranti. E anche adesso sappiamo che c’è gente oggi che sta aiutando molti ragazzi a passare la frontiera clandestinamente – per fortuna. Molte delle storie che noi conosciamo sono solo una piccola parte di quelle che conosceranno gli storici del futuro. Si tratta anche in questo caso di un aiuto fuori dalla legge, che risponde a un senso di giustizia molto più nobile delle leggi del nostro tempo.

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