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L’«Industrial Blues» di Osvaldo Schwartz, la colonna sonora di un film western con i tralicci (e molto altro)

Articolo. Giovedì 10 novembre, alle 20.30, all’Auditorium di piazza Libertà di Bergamo (ingresso 6 €, 5 € per i soci Lab 80), il compositore e musicista bergamasco presenterà un nuovo lavoro multimediale, realizzato con il bluesman Marco Valietti, la musicista elettronica Emiliana Voltarel e il videomaker Domenico Morreale. Fra malinconici blues morriconiani, echi post-futuristi di dinamici treni che sbuffano, «la smisurata libidine di quando si suonano strumenti musicali con una forte risposta timbrica» e la «gioia di poterseli inventare, assemblare e aggiustare»

Lettura 6 min.

Nel mio piccolo percorso di “musicista” – virgolette d’obbligo, perché di fatto non lo sono – ho avuto la fortuna di suonare con Osvaldo Arioldi aka Osvaldo Schwartz in due momenti distinti: con i Bancale, un gruppo avant-blues composto da un chitarrista (Alessandro Adelio Rossi), una voce (la mia) e un batterista che suonava delle lamiere invece dei piatti (Fabrizio Colombi) e nelle reading-concerto del mio primo e fino ad ora unico libro di poesie «Fuoco prendi tutto», ancora con Alessandro Adelio Rossi alla chitarra.

In entrambe le occasioni, più volte ci ha raggiunto Osvaldo con il suo tubicordo e altri strumenti costruiti da materiali metallici di recupero – appartenenti a quella che lui chiama «la ferrata». Di Osvaldo ho sempre apprezzato il raro valore della sua musica, l’indole da artista e artigiano (Osvaldo i suoi strumenti se li costruisce da solo), il rigore e anche la sua dolcezza. Perché Osvaldo, oltre a essere un ottimo cuoco (ne sono testimone diretto), a dispetto della musica che fa, è una persona apparentemente ruvida, ma sotto sotto dolce.

Che nel 2022 arrivi con un nuovo lavoro – non a nome Officine Schwartz ma a nome suo, Osvaldo Schwartz appunto – è una grande notizia. Anche perché «Industrial Blues», questo è il titolo dell’opera pubblicata dall’etichetta Rizosfera, non è un vero e proprio disco. Apparentemente ha le fattezze di un lp, ma dentro non c’è un vinile. C’è una chiavetta usb che contiene materiale audio, cioè il disco «Industrial Blues» realizzato con il chitarrista blues e flamenco Marco Valietti; tre video intitolati «A Vapore», «Vidopro» ed «Elettromeccanica» realizzati dal videomaker Domenico Morreale, e un video live di un’esibizione che le Officine Schwartz (in una formazione a tre con i metalli sonanti di Osvaldo, un musicista elettronico e un batterista) tennero alle OGR – Officine Grandi Riparazioni di Torino il 29 aprile 2011: quell’«Ode Trifase», mai più eseguita in pubblico, di cui una delle parti, «La Sfida», in omaggio a Ennio Morricone, è stata il motore d’avvio di una buona parte di «Industrial Blues».

«Tutto il progetto – mi racconta Osvaldo – è nato da una proposta di Rizosfera nella primavera del 2020. Noi l’anno prima avevamo già fatto il cortometraggio “A Vapore” e quindi quando è arrivata questa proposta subito abbiamo verificato che si potesse fare un lavoro multimediale. “Industrial Blues” mette insieme una serie di collaborazioni molto sentite, ma all’inizio, a parte il cortometraggio, non avevo nulla di pronto».

Rizosfera allora suggerisce a Osvaldo di sviluppare delle parti del concerto alle OGR: «la parte che si chiama “La sfida” a me è sempre piaciuta molto e allora ho pensato di lavorarci». Qui entra in gioco Marco Valietti, «che conoscevo da un po’ di tempo, una bella persona con cui è bello parlare e lavorare. Dal 2017 abbiamo un progetto, “Blues decappottabile”, che unisce la sua chitarra blues al mio tubicordo per una forma di blues che prende in considerazione anche le matrici africane di questo genere, per cui il tubicordo, che è uno strumento monocorde da basso continuo ritmico, poteva essere la fonte dello sviluppo di una musica creata originariamente dai deportati dall’Africa e ricreata con i nostri strumenti. Una musica nuova evoluta dai modi ancestrali africani».

I due, partendo da «La Sfida», lavorano su cinque dei sei brani di «Industrial Blues»: Valietti mette la sua chitarra acustica, blues ma anche flamenca, e la voce scura e catramosa; Osvaldo il tubicordo, i bidoni metallici, le campane tubolari, e altri metalli, ma anche tamburi, piatti, voce e una chitarra elettrica – per la precisione una Gibson SG copia esatta del primo modello Solid Body 1961 – con un suono eccezionale, squillante e immaginifico («più tardi negli anni Settanta è stata chiamata anche Diavoletto» mi risponde su WhatsApp quando gli domando della chitarra mentre sto scrivendo questo articolo).

La lavorazione del disco viene raccontata da Domenico Morreale in un documentario, «Vidopro», che fa emergere tutta la malinconica intensità, la passione ma pure il divertimento che i due ci mettono nel realizzare cinque brani che, partendo dal Morricone western («l’uscita del 45 giri “La resa dei conti / Per qualche dollaro in più” nel ‘65 mi colpì moltissimo»), arrivano a suonare una nuova ipotetica colonna sonora, che a me sembra la soundtrack di un film western in un deserto con i tralicci dell’alta tensione. «A questo disco abbiamo lavorato insieme io e Marco: alcuni brani si sono evoluti rispetto agli originali, alcuni sono nuovi, altre parti sono stati eliminate».

E il sesto brano della tracklist? Si chiama «Elettromeccanica» ed è stato composto dal solo Osvaldo aggiungendo al suo consueto armamentario drum machine, campionatore, synth e voce. Descrive «la smisurata libidine di quando si suonano strumenti musicali con una forte risposta timbrica e inneggia alla gioia di poterseli inventare, assemblare e aggiustare».

Questa frase l’ho presa dal corposo booklet del “disco” con una bellissima grafica, foto e tanti testi: un’intervista ad Osvaldo fatta dal nostro Mirco Roncoroni, un’«intervista ritmica» che racconta l’Instrumentarium del nostro, un’intervista a Domenico Morreale e le biografie del titolare, di Valietti, Morreale e di Emiliana «Volt» Voltarel, di cui fino ad ora non abbiamo parlato.

All’interno di «Industrial Blues», Emiliana «Volt» Voltarel collabora con Osvaldo nella sonorizzazione del cortometraggio «A Vapore», suonando synth, (D)ronin e Noise Box a fianco del tubicordo. L’audio-video viene presentato come «un’opera processuale, che rende sensibile l’immaginario del treno, grazie ai suoni di strumenti musicali non convenzionali e al montaggio di film d’archivio. Immagini mentali legate all’esperienza del treno da cui emergono suoni che stridono sui binari di celluloide».

L’effetto è di forte impatto, ha un sapore post-futurista fortemente evocativo e dinamico. «La collaborazione con Volt è nata perché semplicemente volevamo fare qualcosa insieme, in particolare una sonorizzazione di immagini. E quando abbiamo pensato di farlo lei ha proposto un bravo videomaker che conosceva, Domenico Morreale. A lui poi ho proposto di essere il nostro complice e di occuparsi di tutta la parte visuale di “Industrial Blues”. Ha lavorato tantissimo e bene».

Ma è interessante anche il metodo di lavorazione di «A Vapore»: «è stata una collaborazione passo a passo, non è accaduto che Domenico ha fatto le immagini e noi ci abbiamo messo il sonoro, anzi è stato quasi il contrario: io e Volt abbiamo suonato delle bozze e lui su queste ha lavorato nella ricerca di immagini che costruissero il corto e alla fine abbiamo cesellato il tutto insieme, audio e video. Insomma, è stato un lavoro portato avanti a tre».

Di tutt’altro tipo il discorso per il video di «Elettromeccanica», un pezzo decisamente diverso da tutto quello che si può ascoltare dentro «Industrial Blues». L’elettronica ha un ruolo importante e lo ha anche un “compagno di avventure” delle Officine Schwartz: «ho chiesto a Domenico Morreale di rielaborare le immagini del film “Acciaio” di Walter Ruttmann. È una pellicola del 1933 che ha accompagnato in tante situazioni diverse le Officine Schwartz negli ultimi vent’anni, cioè da almeno il 2000 con “Ferrodolce” (disco del 2002 del gruppo, ndr), e che torna anche qui».

Il risultato, come sottolinea la presentazione del video, è «una fusione tra immagini contemporanee di strumenti percossi e sequenze filmiche di operai al lavoro in fabbrica. Una rilettura metaforica della relazione tra creatività e tecnologia, che evoca la gioia e la fatica di una produzione artistica autentica e consapevole». O per dirla con le parole di Osvaldo: «“Elettromecanica è una musica che da tempo avevo in mente e ho avuto l’occasione di metterci le mani per questo lavoro, un pezzo che ho composto e suonato da solo quando tutto il resto era fatto. In “Elettromeccanica” c’è la gioia, quando vedi un muratore che con la mazzetta deve tirare giù un muro in fondo gioisce per l’energia che ci mette».

Ecco, contento secondo me è una delle parole chiavi di questa opera di Osvaldo Schwartz, multiforme e aperta alle collaborazioni. Lo sento al telefono e lo percepisco soddisfatto, orgoglioso del frutto di ciò che ha richiesto tempo, fatica, riflessione e un bel po’ di creatività da parte dei partecipanti. «Tutto questo non sarebbe stato possibile senza il lavoro colossale di Rizosfera, con un risultato molto bello. Fin dal primo momento siamo stati in contatto per condividere l’evoluzione e lo sviluppo del progetto, ricevendo consigli e molta attenzione».

Quando dice quest’ultima cosa torna quella dolcezza – che in questo caso sa di gratitudine – di cui vi parlavo all’inizio. Osvaldo è così: percuote il metallo, si sceglie i musicisti con cui collaborare in modo attento e rigoroso, ma alla fine lo trovi a ridere mentre parla, o – come mi è capitato alcune volte – ad ospitarti a casa sua per raccontarti di tubicordi, biciarpe, fabbriche e tralicci. In altre parole del suo mondo artigiano: sempre industrial, oggi blues. «Io non ho fatto il conservatorio ma ho lavorato in officina meccanica per cui come uno in conservatorio impara a suonare o in liuteria impara a costruire gli strumenti con delle antiche regole artigianali, per me è la stessa cosa. Perché il metalmeccanico è un lavoro d’artigianato che parte dall’Età del Ferro e lavorando in officina quattro anni ho imparato cosa è il metallo e come lavorarlo. Quando questo ragazzo in officina ha deciso di fare l’artista si è ritrovato con questa capacità di far risuonare il metallo al pari degli strumenti canonici». E dal 1986 (anno del primo singolo «Fräulein / Rambo»), dopo dischi, spettacoli, collaborazioni con il cinema, la danza e il teatro, è qui ancora a farlo. Di avere voglia di smettere non sembra proprio averne.

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