93FE310D-CB37-4670-9E7A-E60EDBE81DAD Created with sketchtool.
< Home

Storia sentimentale di un’educazione alla musica (rovistando tra i dischi di mio padre)

Articolo. Oggi per professione scrivo soprattutto di hip hop, ma la mia passione musicale giunge da tutt’altra parte. Un posto lontano e da scoprire, dove ho imparato a scavalcare generi e categorie: il salotto di casa

Lettura 6 min.
(Luca Roncoroni)

Credo che per molti sia iniziata così: la mia passione per la musica in toto è nata da bambino, nel salotto di casa, rovistando tra i dischi di mio papà. Che allora era il rispettabilissimo direttore delle risorse umane di un’importante multinazionale di elettronica, ma in tempi non sospetti aveva i capelli lunghi e suonava la batteria in un gruppo prog che si chiamava Altra Dimensione. Facevano cover di perle come Biglietto per l’Inferno e PFM, oltre a qualche pezzo loro.

Ai miei occhi di bambino quel salotto era il paradiso, una miniera tutta da scoprire piena di vinili, CD, e cassetti traboccanti di nastri in audiocassetta: qualcuno originale, tantissimi con i titoli scritti a mano, copiati e registrati chissà quando. Li buttavo nello stereo incuriosito dal nome, dalla copertina, da qualche titolo, oppure seguendo i consigli di mio padre.

Non avevo ancora dieci anni, e conoscevo a memoria tutto “We Can’t Dance” dei Genesis. Ogni parola, ogni giro di chitarra, ogni nota di synth. Quei tre signori inglesi erano ufficialmente il mio gruppo preferito, anche perché a pensarci bene conoscevo solo quel disco.
Un giorno mio padre mi disse: “visto che ti piacciono tanto, prova a sentire quest’altro loro album: è molto più bello”. Era un’audiocassetta, sulla cover una strana signora con la testa di una volpe. “Foxtrot” diceva il titolo. Ci provai, non ci capii niente. Mi sembrava noiosissimo, tutto uguale, così lo misi da parte e tornai a canticchiare i coretti di “No Son of Mine”.

Ero un po’ deluso, più che altro per non essere stato in grado di apprezzare quello che mio papà stava cercando di trasmettermi. Ma lui mi disse “non preoccuparti, è normale. Questo è un disco molto più difficile, lo riuscirai a capire quando crescerai”. Fu la prima volta che compresi come che non tutta la musica fosse uguale. Bisognava aumentare qualcosa – l’età? L’esperienza? – per riuscire ad apprezzare certe cose.

Mio padre è molto trasversale negli ascolti. Il punk lo infastidisce, non sopporta il reggae, ma per tutto il resto non ha barriere. Negli anni crebbi consumando ed eleggendo a miei dischi preferiti un’accozzaglia improbabilissima di cose molto diverse tra loro: un Greatest Hits di Fred Buscaglione, un disco new age di una tribù di indiani d’America, gli Osanna di “Palepoli” e “L’Uomo”, “In Rock” dei Deep Purple, la colonna sonora di “Blues Brothers”, “Rosso Relativo” di Tiziano Ferro (questo merito di mia mamma, in realtà).

Arrivato alle medie però mi trovai sbalzato in un mondo estraneo: i miei compagni di classe ascoltavano i Sum 41 ed Eminem. Quando mi chiedevano che cosa mi piacesse, io rispondevo “ascolto musica vecchia, non li conosci” e tagliavo corto. A 11 anni investii i soldi della mia prima paghetta ufficiale per comprarmi il mio primo disco. Ero esaltato come non mai.

Dopo un’ora abbondante passata a spulciare ogni scaffale di MediaWorld, la ponderatissima scelta cadde su “Edward the Great”, un Greatest Hits degli Iron Maiden. I calcolati motivi principali che nella mia testa mi guidarono proprio lì furono: la copertina molto bella (avevo un grande fascino per l’horror in generale), la volontà di provare qualcosa di metal (un termine per me ancora avvolto da un’eccitante patina di proibito) e il fatto che contenesse addirittura 16 tracce – più canzoni uguale meglio, secondo il me di allora.
Arrivato a casa e infilato il disco nello stereo, la folgorazione: era esattamente quello che stavo cercando.

Anche un film mi segnò indelebilmente, nonostante sul momento non me ne resi conto. Mio padre aveva ricevuto in regalo una VHS di “Men in Black”. Prima dell’inizio del film c’era un video musicale, con un Will Smith stilosissimo in giacca, cravatta e occhiali neri che cantava la canzone omonima e sputava un milione di sillabe al secondo. Non capivo nulla di quello che stava dicendo, ma aveva un modo di appoggiare le parole sul ritmo che sembrava quasi “suonarle”.

Mi ricordava un fraseggio jazz, che ai tempi era una musica che mi annoiava tantissimo; ma messa così, in questa salsa sci-fi con il principe di Bel Air che dava la caccia agli alieni, era tutta un’altra cosa. Lì per lì non stetti a ricamarci sopra più di tanto, ma col senno di poi fu un momento importante.

Nel frattempo stavo entrando nell’adolescenza e continuavo a esplorare quelle vagonate di cassette e dischi nel salotto di casa, ampliando i miei orizzonti e sovraffollando la mia platea di dischi preferiti: “IV” dei Led Zeppelin, l’omonimo dei Genesis con quelle strane forme geometriche in copertina (finalmente un altro loro disco che mi piacesse), “Mr. Lucky” di John Lee Hooker, “On Every Street” dei Dire Straits.

Poi, un giorno, quasi per caso, l’epifania: “Blood Sugar Sex Magik”, Red Hot Chili Peppers. Nulla fu più come prima. In particolare due pezzi mi cambiarono la vita. Il primo fu “Give It Away”: quel riff mi convinse a imparare a suonare la chitarra, e John Frusciante divenne ufficialmente il mio musicista preferito. Ascoltai quel disco così tante volte da conoscere a menadito ogni incastro, ogni riff, ogni lick di sei corde, ogni effetto con i pedali. Era un trattato biblico di groove e inventiva, e tutte le volte che lo risentivo riuscivo a scoprire qualcosa di nuovo, un dettaglio che le volte prima mi era sfuggito e mi apriva un nuovo mondo.

Il secondo pezzo fu “The Power of Equality”, la traccia d’apertura. Quel modo di cantare, quel fraseggio intricato e rabbioso, era qualcosa che non avevo mai sentito prima. O forse sì. Aspetta, era esattamente come Will Smith in “Men in Black”!

Solo che questa volta non si limitava al groove e all’eleganza. “I’ve got a soul that can not sleep / At night when something just ain’t right”. Per la prima volta mi arrivò l’urgenza, il bisogno di comunicare qualcosa, un vago impegno politico che ancora non ero in grado di inquadrare e classificare. La rima “Come on courage, let’s be heard / Turn feelings into words” sintetizzava i concetti di militanza, di ribellione, di rivendicazione come mai avevo sentito.

E poi, nella terza strofa: “I’ve got tapes / I’ve got c.d.’s / I’ve got my Public Enemy”. Che roba sarà questo Public Enemy? Documentandomi, scoprii che si trattava di un gruppo hip hop americano particolarmente amato dai Red Hot. Registrai l’informazione e lasciai perdere: l’hip hop era qualcosa che non mi interessava.

Eppure avevo appena scoperto di amare il rap. Quel modo di usare la voce, appoggiando sulla musica molte più parole e concetti rispetto a qualsiasi altro genere, mi spingeva a volerne sempre di più. Però lo volevo con le chitarre, non su una musica elettronica pre-registrata.

E allora via: i Faith no More di “The Real Thing” (quante porte mi ha aperto “Epic”), i Rage Against the Machine, i Jane’s Addiction, i Primus, i Limp Bizkit (purtroppo sì, oggi un po’ me ne vergogno), i POD, i System of a Down, i Linkin Park. Questo genere chiamato crossover, che mischiava il rap e le chitarre, divenne ufficialmente la musica della mia adolescenza.
Tuttavia non volevo fermarmi lì. L’unica costante della mia vita musicale doveva essere l’incostanza.

Volevo provare tutto, capire, esplorare, poter dire che una cosa mi piaceva o non mi piaceva con cognizione di causa. Spesso mi accorgevo anche che mi obbligavo a farmi piacere qualcosa che in realtà non mi piaceva, solo per poter dire “sono andato anche lì, ascolto anche quello”.
Non era necessariamente un approccio sano, ma mi sembrava la cosa giusta da fare per riuscire a capire meglio tutto quanto. Per dirlo con le parole di mio padre quando ero bambino, per “crescere”.

Così in quegli stessi anni cominciai a entrare anche in generi che fino a quel momento avevo sempre snobbato: il jazz, il reggae, il blues, la musica classica, il kraut, il punk (dove spesso ritrovavo quella stessa urgenza militante che cercavo nel rap) e tutti i suoi derivati – dalla darkwave al post-punk.

Verso i 18 anni mi presi una sbandata anche per la musica elettronica: i Prodigy, i Depeche Mode, Aphex Twin, Burial. Credo che una buona spinta per questa nuova passione fosse arrivata dalla colonna sonora di “Trainspotting”.

Progressivamente mi accorsi che la cosa che mi arricchiva più di tutte era l’ibridazione. Mi piaceva vedere le carte scombinate, mischiare le cose, abbattere i confini e rimodellare le forme. E così m’imbarcai in una serie di ascolti bastardi, meticci, dove i generi che avevo bazzicato separatamente convivevano promiscui e si ricombinavano in qualcosa di nuovo. L’elettronica e la classica (da Rob Dougan a Nils Frahm), il jazz e l’IDM (Amon Tobin, Romare, St. Germain), il metal, la lirica e il teatro (Haggard, Epica, Theatre of Tragedy), il dub e il reggae con ancora un pochino di rap e di tinte noir (tu chiamalo, se vuoi, trip hop, con Massive Attack, Tricky e Portishead).

A quel punto mi accorsi che il prog da cui ero partito da bambino con i Genesis rappresentava esattamente quella cosa lì: il rock prestato alla musica classica, alle suite free-form, all’abbattimento delle barriere. Così tornando ai dischi di mio padre scoprii l’Inghilterra di King Crimson, Gentle Giant, Coloseum e Beggar’s Opera, e l’Italia del Banco, della PFM, delle Orme. Ero tornato all’inizio del mio percorso, ma con strumenti diversi. Finalmente imparai ad amare i primi Genesis di Peter Gabriel, fiabeschi e inquietanti, ostici e immaginifici. Quelli di “Nursery Crime”, “Selling England by the Pound” e di quel “Foxtrot” che tanto mi aveva confuso da piccolo.

Ma in un angolino della mia testa restava quella cosa a cui ancora non avevo finito di dare un senso: Will Smith che ballava con l’alieno in “Men in Black”, Anthony Kiedis che rappava incazzato nell’incipit del capolavoro dei Red Hot, e la mia voglia di provare e conoscere tutto.

Un giorno guardando il DVD di un live dei Red Hot Chili Peppers decisi di togliermi finalmente il sassolino dalla scarpa. Come introduzione alla loro hit “Give It Away”, i RHCP eseguivano sempre una breve cover di “You’re Gonna Get Yours”. L’originale era di quel gruppo hip hop citato in “The Power of Equality”, i Public Enemy. Provai ad ascoltare l’originale, e a recuperarmi il loro disco principale. Già il titolo, prolisso e battagliero, mi incuriosiva: “It Takes a Nation of Milions to Hold Us Back”.
Inserii il CD nel lettore, e cominciò “Bring the Noise”. BUM.

Qualche anno e qualche ascolto più tardi, arrivai a scrivere un libro sull’evoluzione della musica hip hop. Ma questa, come da cliché, è un’altra storia.

Approfondimenti