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Germano Lanzoni: milanesità, ironia e maestri (per smascherare gli imbruttiti)

Intervista. Giovedì 18 luglio ad Azzano, il suo “Recital” sull’onda di Valdi, Fo, Gaber e Jannacci

Lettura 5 min.

Arriva A levar l’ombra da terra Germano Lanzoni, precisamente ad Azzano San Paolo, giovedì 18 luglio alle 21.30 nel cortile della scuola primaria (via Dante Alighieri, ingresso gratuito, in caso di pioggia al centro sportivo).

Personaggio famoso grazie al web e con una carriera ventennale sul palco, tra spettacoli e eventi di livello nazionale. Comico, speaker, conduttore, cantautore, caratterizzato da un linguaggio ironico e da un’innata capacità d’improvvisazione supportate da un talento naturale. Lanzoni è tante cose insieme ma soprattutto è orgoglioso della sua milanesità: attore per il Milanese Imbruttito e Terzo Segreto di Satira nonché voce del Milan. Abbiamo fatto una chiacchierata con lui.

M.V. - Partiamo da ciò che la stragrande maggioranza sa e cioè che lei è il volto del Milanese Imbruttito. Nella squadra, oltre ai fondatori, ci sono i componenti de Il Terzo Segreto di Satira. Si aspettava questo successo?

G.L. - Ci ha sorpreso questa notorietà diffusa, ma fa molto piacere perché dà riscontro alla qualità del lavoro che viene svolto. Però non mi ha sorpreso dal punto di vista di “incidente” perché veniva da una buona serie di successi (registrati dall’esperienza iniziata con Il Terzo Segreto di Satira di cui Lanzoni faceva già parte, ndr), in cui quelle dinamiche divertivano noi e gli altri. Essendo un comico, però, ogni volta che salgo sul palco riparto da zero e quindi è un successo relativo, certifica che quello che ho fatto precedentemente ha funzionato. Il primo applauso, forse, me lo sono guadagnato con i video, ma gli altri, dalla prima battuta in poi, me li devo guadagnare sul campo.

M.V. - Ma che cosa rappresenta l’imbruttito?

G.L. - È un’esasperazione, è un portare all’eccesso e al paradosso una dinamica reale come quella della criticità della città e del lavoro, che sono i grossi habitat in cui l’imbruttimento si manifesta in qualunque città, non solo Milano. Se nel nostro quotidiano ci capitano alcuni momenti “imbruttiti”, al personaggio succedono una sequenza costante di criticità che vive e manifesta nella sua massima essenza.

M.V. - A chi si è ispirato per interpretare il personaggio dell’imbruttito?

G.L. - Come caratteristiche del personaggio il Dogui, ossia Guido Nicheli, che era di Bergamo. Poi mi sono ispirato a mio papà nell’atteggiamento e a mio fratello. Papà era milanese e mi ha fatto innamorare di questa città quando mi raccontava le sue storie. Quando entro sul set e penso alla mia milanesità l’appoggio è familiare, poi il linguaggio e le citazioni del personaggio fanno riferimento al Dogui, come il Taaac, perché ha interpretato parte della milanesità e ne era l’icona fino a una decina di anni fa.

M.V. - E nella realtà?

G.L. - Mi ispiro pure agli imbruttiti che vedo, anche perché i founder hanno creato la pagina dall’osservazione antropologica del linguaggio e del comportamento dell’imbruttito di oggi. La stessa community manda messaggi, foto, frasi sui comportamenti che poi vengono trasformati in sceneggiatura. Riguardo a Milano, più in generale, al di là del personaggio, quando penso alla mia città mi vengono in mente Cochi e Renato, Walter Valdi, Enzo Jannacci, Giorgio Gaber, Dario Fo. Miei miti personali le cui influenze si potranno riscontrare nello spettacolo del 18 luglio.

M.V. - Le è cara la sua milanesità. Si vede anche nella sua biografia che comincia proprio con “È un artista milanese”.

G.L. - Milano è la città che mi ha formato artisticamente sia per aver frequentato la scuola teatrale dell’Arsenale, che è stata molto importante, sia per aver sperimentato i palchi dei teatri off. Qui ho cominciato a respirare la mia professione e a fare cabaret, in un circuito in cui c’era un modello milanese di cabaret, la massima espressione del teatro canzone, tra monologo e canzone, che è la nostra scuola. Quindi mi riconosco in questo linguaggio e in questa città. La psicogeografia direbbe che l’habitat in cui cresci influenza anche il modo di creare, non solo di pensare.

M.V. - Cosa riconosce di avere appreso dai maestri?

G.L. - Un certo tipo di ironia e malinconia, disincanto e cinismo che sono tipici della nostra città. Mi piace avere un filo che mi unisce a chi mi ha preceduto: dai giullari del ‘400 fino agli spettacoli di stand up del 2020. Una linea continua con gente che racconta l’incongruenza delle nostre vite attraverso una riflessione non per forza comica. L’intenzione dei miei maestri è quella di provocare la risata per fare dire delle cose e non dire delle cose per fare ridere. E questo mi ha influenzato, poi ognuno declina secondo il proprio talento. Sto proseguendo, nella migliore delle ipotesi, come traghettatore dei grandi maestri del passato ai grandi maestri che arriveranno. Perché quel periodo storico, degli anni ’70 e ‘80, aveva una cultura comica e generale. Una forma di pensiero e un linguaggio che erano molto più profondi rispetto a oggi, dove si nota la superficialità individuale.

M.V. - Superficialità come mancanza di ironia?

G.L. - No, facciamo molto ridere. Ma credo che ci manchi l’ironia in alcuni momenti, ad esempio nell’uscire dai punti critici dei conflitti. Non riusciamo a cogliere in modo ironico le cose. E quello è un senso di libertà: l’ironia riesce a dare peso alle cose. Per me, è una chiave di lettura quotidiana, ma forse è una deformazione professionale. L’ironia, diceva Gianni Rodari che la difendeva, può essere usata anche per dire cose serie e, come il divertimento, apre verso il mondo, fa conoscere e attiva l’analisi critica.

M.V. - Forse non tutti sanno che è speaker ufficiale del Milan, anche tifoso rossonero.

G.L. - È un dono che dura da vent’anni. È iniziato nel 2002: dopo due anni di gavetta tra giovanili e eventi, sono finito sul campo. Da allora mi emoziono ogni volta e in egual modo quando leggo la formazione, che sia in Champions League o in campionato. In un contesto come San Siro è adrenalina allo stato puro.

M.V. - C’è qualcosa di teatrale in tutto questo?

G.L. - La lettura della formazione è la parte di un prologo teatrale quasi shakesperiano, quando all’inizio dell’opera si presenta lo spettacolo. E lo stadio è un palcoscenico di un teatro contemporaneo. Vivo il mio ruolo di speaker come un ruolo teatrale e infatti lo faccio in mezzo al campo ed ha una funzione emozionale. Lo vivo, poi, come un tifoso. Un tifoso che quando il Milan vince è felice. Quando perde, invece, molto molto meno. E allora vedo tutti i programmi sportivi fino a notte fonda con la speranza che alla fine qualcuno dica che il risultato è cambiato.

M.V. - Ironia, milanesità, presenza dei maestri. Nello spettacolo di Azzano troveremo questi aspetti?

G.L. - È un recital con monologhi e canzoni sull’uomo contemporaneo e la sua quotidianità. Il sottotitolo potrebbe essere “Di persona è un altro” perché in realtà io racconto la persona, l’uomo che c’è attorno, dentro e fuori di me: ci sarà un momento di imbruttito, di personaggio, che durerà un tempo giusto che è ridotto, e poi di analisi antropologica di una “scimmia” contemporanea che usa tablet e smartphone, ma che la le stesse dinamiche di quella del Pleistocene. In più ci saranno le canzoni scritte con Orazio Attanasio che mi accompagnerà dal vivo con la chitarra. I brani raccontano la rivoluzione, ossia perché non la facciamo in Italia, se c’è bisogno poi; l’altra, la figura del giullare e la terza riguarderà Milano. Essenzialmente saranno queste, poi ce ne sono altre, ma dipenderà da ciò che succederà nella serata. Nello spettacolo richiamo i miei grandi maestri e di Valdi interpreterò “Eppur mi disi”, bellissima poesia su Milano. Ricordo di averlo visto in scena nei locali quando avevo cominciato nel ’94, avevo ventidue anni, e rimasi estasiato per la sua capacità di tener il pubblico di tutte le età.

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