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Fare la cicala non è un lavoro di serie B: il teatro semplice di poesia e bellezza di SATS. Secondo Max Vitali

Intervista. “Chiedo scusa alla favola antica / se non mi piace l’avara formica. / Io sto dalla parte della cicala / che il più bel canto non vende, regala”. È di Gianni Rodari la reinterpretazione della storia della cicala e della formica, un’ispirazione fondamentale, secondo il direttore della Scuola d’Arte Teatrale di Treviglio, per ricordare l’importanza della voce di artisti e artiste

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Ombre cinesi

“Bene”, mi risponde Max Vitali, attore, clown, musicista e direttore della SATS – Scuola d’Arte Teatrale di Treviglio, quando gli chiedo come vanno le cose. Ed è forse il primo professionista in ambito teatrale, da mesi a questa parte, a darmi questa risposta, anche se poco dopo aggiunge: “Direi bene, anche se non è andato bene nulla”.

Oltre a stare in scena e a creare spettacoli di teatro e circo, soprattutto per l’infanzia e l’adolescenza, Vitali opera nell’ambito didattico-formativo. “È una piccola fortuna, perché devo chiudere la scuola ma a periodi alterni: in zona arancione qualcosa riusciamo a fare, perché per bambini e ragazzi è considerata un’attività ludico-ricreativa, quindi consentita. Mi è andata meglio rispetto a colleghi e colleghe nell’ambito della danza, che è classificata come attività sportiva”. Parzialmente salvati dagli interstizi dei decreti, quindi, pur nelle difficoltà. E ora sembra il momento di elaborare idee per un domani sempre più vicino, in cui le riaperture dei teatri sembrano diventare una possibilità concreta: “A noi sono mancati molto gli interventi laboratoriali e nelle scuole, ma ora si vede finalmente qualche spiraglio. Certo, ci sarà tantissimo da lavorare, sperando che potremo avvicinarci gradualmente alla normalità”.

LD: Quindi è andata bene, ma non benissimo?

MV: La percezione che abbiamo avuto è stata di essere dimenticati, di non servire a nulla. Il Covid ha accentuato molti non detti, e in un periodo di scelta tra cose da salvare e cose da lasciare, noi siamo stati messi da parte. Ma è assurdo: perché alcune tipologie di lavoratori contano e altre no? Poi c’è un secondo paradosso: il nostro lavoro consiste nel trovare e proporre delle modalità di pensiero, inventare cose nuove, ragionamenti, mantenere elasticità. La nostra utilità avrebbe dovuto essere questa. Invece la paura ha reso il nostro lavoro inutile.

LD: Invece inutile non è.

MV: Il teatro è contatto fisico ed emotivo e col contatto ci si apre, è la prima cosa che insegno ai miei allievi. Mi piace citare la storia della cicala e della formica, nella rivisitazione di Gianni Rodari: la formica lavora tutto il giorno per portare a casa il pane, ma dal canto suo anche la cicala fa un lavoro egregio, mette in moto la fantasia e rende più serena la vita della formica, intrattenendola. È questo il nostro compito: fare cose belle, creare bellezza.

LD: Non proprio un lavoretto da nulla. E perché la cicala non viene ascoltata?

MV: Partiamo dalle basi: io faccio l’artista, che significa fare cose concrete. Dovremmo uscire dallo stereotipo dell’artista che fa cose astratte o incomprensibili. Che senso ha ciò che faccio? È una domanda che ci si pone il primo giorno che si decide di fare questo lavoro. La situazione in Italia è disastrosa, e sono ottimista. Manca del tutto l’educazione culturale, nel senso di un terreno comune, condivisibile, una cultura che crei dei ponti. Nel momento in cui ci dedichiamo al teatro, o alla cultura o all’arte in generale, non abbiamo la capacità di usare termini semplici per spiegare quello che facciamo. Quindi, alla fine, non ci si capisce.

LD: Bisogna puntare all’essenziale.

MV: Io penso che sia necessario essere semplici. Rivalutare quello che facciamo. Il teatro vive se ha pubblico, nelle relazioni. Se faccio uno spettacolo e vengono a vedermi, immagino che quel momento sia apprezzato come un rito collettivo. Ecco cosa auspico per la ripresa delle attività teatrali: deve essere il ritrovarsi di una comunità, stare insieme, per elaborare dei pensieri. Guardarsi negli occhi, semplicemente. Io non vedo l’ora di poter rivedere i visi delle persone. Me ne accorgo coi bambini e le bambine che vengono a scuola: magari abbassano un momento la mascherina e mi rendo conto di aver immaginato le loro facce completamente diverse. Quelle facce mi mancano.

LD: “Il teatro è difficile”.

MV: C’è bisogno, anche, di chi esprime pensieri molto alti; io, personalmente, faccio un lavoro molto semplice: cerco di portare della gioia. Semplicità e poesia sono le mie parole d’ordine, due elementi che caratterizzano i pensieri dei bambini, meravigliosi e poetici.

LD: Occupare teatri, interloquire con le istituzioni, tessere nuove collaborazioni… Sono alcuni approcci adottati dal mondo teatrale in questo periodo. Quali sono state le tue strategie e quali scegli per il futuro?

MV: Come e con chi parlare dipende dalla propria identità come artisti. Nel nostro settore siamo tantissimi e molto frammentati, nonché non molto consapevoli, a livello di categoria. È un grosso punto dolente. Abbiamo colleghi legati al ministero, soprattutto grosse compagnie, che gestiscono strutture, e una serie infinita di singoli e piccole compagnie, professionisti e semi-professionisti. Siamo tutti uguali? Una differenziazione ci deve essere, per chiedere delle cose. Per me, ad esempio, non ha senso rapportarsi con istituzioni come il ministero.

LD: Chi sono i tuoi interlocutori?

MV: I singoli. Mi chiedo di cosa ha bisogno il pubblico. Cerco di avere la percezione del territorio bergamasco, nello specifico della zona in cui lavoro, cioè Treviglio. Nella Bassa la situazione è molto diversa da quella cittadina, sia da un punto di vista dell’offerta teatrale, sia da quello delle risorse a disposizione. Negli anni ho semplicemente fatto delle scelte, partendo dal pubblico, cercando di avere una cultura del territorio.

LD: Altri interlocutori possibili?

MV: I colleghi e le colleghe: è giusto e auspicabile fare rete, anche solo per creare un terreno comune e far sì che si ottengano delle minime garanzie lavorative. Ma non solo: penso sia utile puntare alla condivisione. Noi abbiamo inaugurato una fase di progettualità comune con una realtà di Treviglio, un collettivo di artisti che si chiama Karavanseray. Con loro abbiamo organizzato un’iniziativa a Santa Lucia, raccontare ai bambini delle storie al citofono.

LD: E cosa riserva il futuro?

MV: Abbiamo un progetto in corso proprio queste settimane, un’iniziativa che abbiamo chiamato “Voci dalla Vetrina”: un’installazione scenografico-sonora, all’interno della sede del collettivo, a Treviglio. Sto poi riflettendo su come sfruttare le mie competenze nell’ambito del teatro di figura, e un’idea che mi è venuta in mente è uno spettacolo di ombre sui muri dei palazzi. E poi vedremo: io seguo delle direzioni e ispirazioni, se sento che diventano delle necessità per qualcuno, allora è la strada da battere.

Sito Scuola d’Arte Teatrale di Treviglio

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