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#workinprogress: anche al piccolo imprenditore è concesso di sentirsi fragile (e chiedere aiuto)

Articolo. L’uso di stupefacenti o di alcol a fini performativi è una realtà nota e in crescita nel mondo del lavoro, anche nella nostra provincia. Ad influenzare queste pratiche di consumo, una pluralità di fattori sociali, economici e culturali su cui bisognerebbe riflettere di più. Perché quando il problema esplode, spesso è troppo tardi

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Da anni, ciclicamente, appaiono sui giornali articoli che denunciano elevati tassi di consumo di sostanze stupefacenti in provincia di Bergamo. Succede, ad esempio, quando l’Istituto Mario Negri pubblica i risultati delle analisi periodiche sulla presenza di sostanze nelle acque reflue di Treviglio, Caravaggio e dei 14 comuni circostanti. O in occasione di alcuni episodi di cronaca. In questi casi siamo soliti discuterne per qualche giorno, riportando le cause alle problematiche connesse alla marginalità sociale o al disagio giovanile. Dopodiché voltiamo pagina.

Ma vi è un aspetto che non può passare inosservato, una specie di elefante nella stanza: nella nostra provincia, marginalità sociale e disagio giovanile non hanno una diffusione quantitativa maggiore di altri territori. Anzi, il benessere diffuso e la presenza di una robusta rete di servizi fanno della bergamasca un’area fortunata rispetto a gran parte delle province italiane. Insomma, i conti non tornano. È chiaro che una quota significativa del suddetto tasso di consumo abita zone grigie difficili da individuare e interpretare con le “classiche” diagnosi sociali e psicologiche. «Ogni 10mila abitanti della provincia di Bergamo, 54 sono in cura per una dipendenza. I numeri sono rilevanti, e al tempo stesso sottostimati» ha dichiarato proprio qualche giorno fa sulle pagine de L’Eco di Bergamo Alberto Zucchi, direttore del Servizio epidemiologico aziendale dell’ATS di Bergamo.

Una di queste zone grigie è certamente il mondo del lavoro, dove l’uso di stupefacenti a fini performativi è una realtà ben nota e in crescita. «I chili di cocaina sequestrati dalle forze dell’ordine nella Bergamasca nel corso dell’anno hanno sempre numeri a due zeri – scriveva Fabio Conti su L’Eco Di Bergamo nel dicembre 2021ma il consumo di questa sostanza, indipendentemente dai sequestri, si stima sia molto elevato: non è più la droga dei ricchi, com’era considerata decenni fa, ma oggi è spesso usata come doping tra lavoratori dei vari settori: dall’imprenditore all’operaio, dall’autista all’artigiano. Un modo sbagliato per “darsi la carica” prima di lavorare e che sfocia rapidamente in una dipendenza dalla quale è molto difficile uscire. E questi cocainomani “sommersi” sono la stragrande maggioranza dei dipendenti da questa sostanza». Un mondo esteso e allo stesso tempo difficile da intercettare e indagare.

Interessante, a questo proposito, la seguente osservazione di Zucchi contenuta nell’articolo citato poco sopra: «l’evidenza che il numero di persone con problemi di dipendenza sia sottostimato emerge dal fatto che all’aumentare dell’offerta di servizi ambulatoriali aumenta anche il numero degli utenti, è accaduto così ad esempio nel 2019 con il potenziamento del pool di erogatori privati: significa che c’è un bisogno che cerca risposta». Zucchi segnala anche che nel nostro territorio, nonostante la crescita registrata, «resiste ancora uno stigma nell’interfacciarsi con i servizi per le dipendenze».

Io stesso sono entrato in contatto con questo fenomeno in modo del tutto accidentale. Semplicemente perché per qualche anno ho lavorato come tutor e formatore nel settore edile. Un’attività che mi ha portato a trascorrere molto tempo con muratori, idraulici, elettricisti, gruisti, pavimentisti, piccoli impresari. Erano gli anni in cui il testo unico sulla sicurezza 81/08 prendeva il posto della famosa 626, introducendo anche nuove norme relative al consumo di alcol e stupefacenti. Se nelle ore d’aula il tema era accolto da uno strano silenzio, nei momenti informali come le pause pranzo invece emergevano tante testimonianze drammatiche — storie di vita raccontate quasi sempre in terza persona, per non esporsi troppo. Affiorava così un vasto mondo di sofferenza sotterranea che non avrei incontrato altrimenti, pur vivendo da sempre nel medesimo raggio chilometrico.

Quell’esperienza mi costrinse a rivedere ciò che avevo fino ad allora appreso riguardo le dipendenze, e a prendere in considerazione la pluralità di fattori sociali, economici e culturali che influenzano fortemente queste pratiche di consumo. Queste storie di vita difficilmente possono essere comprese esclusivamente a partire dalla fragilità psicologica della singola persona. Fattori sociali e individuali si intrecciano in modi completamente diversi da quelli che caratterizzano marginalità, disagio sociale o subculture anticonformistiche.

La prima cosa che notai all’epoca, infatti, fu che le figure più esposte al rischio di restare intrappolate nelle dipendenze connesse alla prestazione lavorativa avevano caratteristiche comuni. Non di natura psicologica, bensì giuridica e professionale. Erano artigiani, titolari di partite IVA o di microimprese, cottimisti. Tutte persone la cui sopravvivenza dipendeva dalla capacità del singolo di reggere le pressioni competitive del mercato intensificando i propri ritmi di lavoro. La produttività individuale era l’unica variabile su cui potevano intervenire direttamente per perseguire il proprio successo professionale. In un universo in cui tutto era demandato all’autodisciplina, l’uso di droghe diveniva spesso una forma di automedicamento. Lavoravano fino tredici ore al giorno con un forte carico di stress fisico ed emotivo che le sostanze riuscivano, apparentemente, ad alleggerire. Per poi, ahimè, produrre danni maggiori di qualunque illusorio beneficio temporaneo. Perché venivano utilizzate non solo per aumentare la resistenza alla fatica e allo stress, ma anche al dolore.

Ricordo pavimentisti che — grazie alla combinazione di Muscoril, Voltaren e cocaina che cancellava ogni dolore — riuscivano a completare un grande capannone in soli due giorni. Il problema è che il dolore è un messaggio importantissimo che il nostro corpo ci manda per segnalarci di modificare un comportamento scorretto e dannoso. Eliminando il dolore non si elimina il danno, anzi, lo si alimenta finché diviene irreversibile. Ho conosciuto molti giovani muratori che, in questo modo, si sono ritrovati inabili al lavoro di cantiere a soli 26 anni. Rinunciare al cantiere per la fabbrica è, per alcuni di loro, un’esperienza di drammatica sconfitta.

Mi colpì molto il racconto di un ragazzo della Val Seriana: muratore dall’età di 15 anni e artigiano autonomo dai 22, attorno ai 29 aveva dovuto abbandonare l’edilizia perché lavorando in modo scorretto e eccessivamente intenso — coadiuvato dall’uso delle sostanze citate poco sopra — aveva compromesso in modo irreversibile la colonna vertebrale. La brusca interruzione di quella che era sempre stata la sua traiettoria di vita e professionale, oltre che la sua grande passione, l’aveva portato alla depressione. «Volevo costruire case e invece mi ritrovo a guardare una macchina che lavora da sola» mi diceva. Per questa ragione stava affrontando un lungo percorso psicoterapeutico e farmacologico per superare da un lato la depressione e dall’altro la dipendenza da cocaina e antidolorifici.

Storie come queste purtroppo sono molto più diffuse di quanto si pensi. Non solo nell’edilizia, ma in tutti i settori che vedono una forte presenza di esternalizzazioni, sub-appalti, microimprese. La logistica, ad esempio, dove la crescita di lavoratori autonomi è andata di pari passo con l’aumento delle pressioni competitive legate ai tempi di consegna.

Inoltre questi lavoratori autonomi vivono il peso di aspettative sociali, familiari e professionali che vietano loro di manifestare qualunque fragilità o bisogno di aiuto. Devono mantenere a tutti i costi un’apparenza di forza e autonomia. Agli occhi degli altri quanto ai propri. Come se la condizione giuridica di titolare d’impresa o di lavoratore autonomo implicasse una autonomia anche esistenziale. È uno dei lati oscuri della tanto elogiata cultura bergamasca del lavoro.

Anche il piccolo impresario, senza capitali e mezzi di produzione (che infatti noleggia di volta in volta), è spinto a comportarsi in società come il proprietario di una media impresa. Queste persone tendono dunque a nascondere e dissimulare le proprie difficoltà. Tengono duro finché riescono. Attorno a loro non si genera, come nel caso di altri consumatori, alcun allarme sociale. Le famiglie non si accorgono o negano, ed è molto improbabile che vengano intercettati dai servizi. Così la dipendenza si protrae, la spirale di indebitamento pure. E quando il problema esplode, è spesso troppo tardi.

Su questo aspetto forse dovremmo riflettere di più. I modelli sociali economici e culturali condivisi possono rappresentare concause dell’abuso. All’origine delle storie appena raccontate non vi è solo l’intreccio tra fragilità economiche strutturali e fragilità psicologiche individuali, ma anche contesti sociali e lavorativi caratterizzati da schemi, valori e norme implicite ed esplicite che tendono al massimo rendimento, alla competizione e al successo ad ogni costo. Una cultura diffusa che non crea le condizioni di ascolto e accoglienza affinché un piccolo imprenditore possa dirsi fragile e chiedere aiuto senza subire lo stigma del fallimento individuale o della tossicodipendenza.

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