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Bergamo Next Level: “editori social”, filter bubble , fake news e clickbaiting . Come ci informiamo oggi?

Intervista. Lo scenario dell’informazione digitalizzata richiede conoscenza delle dinamiche in atto e consapevolezza da parte del lettore. Ne abbiamo parlato con Francesca Pasquali, docente di sociologia dei processi culturali e comunicativi. Il 14 maggio sarà fra i protagonisti dell’incontro «La fine del diritto all’informazione?»

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Sono tanti gli aspetti che caratterizzano l’informazione oggi. Pensandoci, la prima metafora che viene in mente è quella (didascalica) della giungla. Un territorio pieno di insidie e incertezze, dove informarsi può diventare facilmente un’azione che conferma le proprie convinzioni e ognuno sembra poter costruire il proprio giornale “personale”. Ma non è esattamente così. E non “moriremo” di fake news e clickbaiting. Basta un po’ di consapevolezza e di esperienza. Come ci spiega Francesca Pasquali, che con Isaia Invernizzi (giornalista de Il Post) e Massimo Foglia dell’Università degli studi di Bergamo, sarà fra i protagonisti dell’incontro «La fine del diritto all’informazione?» di Bergamo Next Level (14 maggio, ore 11, iscrizione gratuita qui).

LB: Professoressa Pasquali, attraverso un social network un utente oggi può realizzare il proprio “giornale” personale?

FP: No, direi che può costruire un insieme di notizie secondo il suo orientamento sui fatti ma manca quella “cornice” interpretativa e strutturale che è appunto il giornale vero e proprio. Diciamo quindi che da un lato i social network permettono di personalizzare molto l’informazione di un utente, ma dall’altro lo privano appunto di questa cornice.

LB: Quindi i social network non possono essere considerati gli “editori” del nostro tempo?

FP: Sì e no, nel senso che come dicevo prima le piattaforme non hanno proprio quella funzione dell’editore di esercitare un’azione di selezione e di filtro dei fatti. Ma anche di ricomposizione sulla base della scelta di una linea editoriale. Per i social network la funzione di filtro viene esercitata, ma a prescindere da una volontà di organizzazione del contenuto. Quello che conta è la domanda dell’utente e l’interpretazione di quelli che potrebbero essere i gusti e gli interessi degli utenti, basandosi sull’analisi dei dati. In altre parole è una selezione algoritmica. In questo senso allora possiamo dire che i social network diventano i nuovi “editori”, se siamo d’accordo nel mettere da parte quello che il Novecento ci ha consegnato come la funzione dell’editore, che si assume l’onore e l’onere di selezionare ciò che succede e riorganizzarlo in cornici interpretative.

LB: Come si esce dalle filter bubble, cioè, secondo La Treccani, «l’ambiente virtuale che ciascun utente costruisce in Internet tramite le sue selezioni preferenziali, caratterizzato da scarsa permeabilità alla novità e alto livello di autoreferenzialità»?

FP: Le filter bubble è vero che esistono, perché gli algoritmi tendono ad assecondare le preferenze degli utenti, ma siamo anche noi utenti complici di questa cosa. Per cui la bolla di filtraggio nasce da due selezioni: quella algoritmica da una parte, e la nostra tendenza ad accomunarci a chi ci assomiglia di più secondo le nostre convinzioni e passioni. Nulla di nuovo, è un meccanismo selettivo che da sempre ci porta a scegliere fonti di informazione confermative. Io penso però che le filter bubble non siano così pervasive, come certa letteratura troppo pessimista ha fatto emergere: noi siamo dentro ad ambienti informativi in cui comunque c’è una pluralità di fonti che va oltre i social network e che prima era impensabile. In più c’è una parte di esposizione casuale alle informazioni che ci può mettere in contatto con contenuti informativi che non appartengono alla nostra bolla. Dobbiamo ricordarci che le nostre appartenenze online sono multiple, difficilmente sono estremamente chiuse e caratterizzate da un’alta ricorsività di contenuti. Ciò ci consente, se lo vogliamo, di “fuggire” dalle bolle.

LB: In che modo possiamo evitare le fake news? Ci sono dei metodi?

FP: Sono tanti i piani di azione per contrastare questo fenomeno di inquinamento dell’informazione. Cominciamo col dire che al termine fake news possiamo sostituire quello di «cattiva informazione», usando così un termine più neutro e con una sua portata storica, perché l’informazione più o meno intenzionalmente di bassa qualità non è un tema nuovo, non è stata inventata dai social network e a volte arriva dai media tradizionali. Al di là del fatto che ormai ci sono tanti soggetti che se ne occupano professionalmente, svolgendo il cosiddetto lavoro di fact checking , e che gli stessi editori e social network si stanno impegnando in questo senso, c’è una questione di responsabilità del lettore.

LB: Di che tipo?

FP: Una delle grandi trasformazioni che il digitale ha prodotto è che l’utente ha assunto un ruolo del tutto nuovo, che già prima dei social network c’era su una scala molto ridotta, sia in rete che nella realtà di tutti i giorni: i lettori possono distribuire le notizie che leggono, questo può essere deleterio, ma è anche un compito di responsabilità, che permette di “bloccare” l’eventuale fake news. La scuola, l’università e le altre agenzie formative lavorano per dare più forza a questo ruolo di responsabilità, aiutando la capacità di riconoscere una notizia valida da una non di qualità o addirittura falsa, muovendosi lungo lo spettro della cattiva informazione se non proprio della disinformazione. Le spie ci sono, sviluppare un po’ di occhio e resistere alla propria curiosità verso certi titoli scritti apposta per attirare click, quello che chiamiamo clickbait , sono delle soluzioni. Si può capire quando un articolo è scritto solo per questo obiettivo e quando una news è volutamente manipolata. Non dimentichiamo poi che ci sono fake news che sono contenuti superati e che rimangono comunque in rete grazie ai motori di ricerca e alla circolazione continua dei contenuti. Basta stare attenti alla data.

LB: La disintermediazione dell’informazione – soprattutto verso il pubblico giovanile che preferisce ad esempio internet alla televisione – non è stata aiutata anche da una perdita di credibilità del sistema giornalistico italiano? Dove le tv di Stato sono controllate dal Governo, le principali tv private da un importante leader politico ancora in attività e sono pochi i quotidiani la cui proprietà è di un editore “puro”, cioè che non ha altri interessi di natura economica?

FP: La disintermediazione nel campo dell’informazione fa parte di un processo molto più ampio e trasversale, che non è solo specifico dell’informazione, ma vale in molti altri ambiti. Si tratta di una disintermediazione ma anche di una conseguente costruzione di nuovi intermediari secondo quella logica “editoriale” di cui parlavamo nella prima domanda. Dopodiché certamente c’è stato un fenomeno che precede il digitale di questi anni, un “raffreddamento” dei rapporti tra il pubblico e le fonti informative più tradizionali, c’è stata una perdita di credibilità, uno «scetticismo» di fondo, come lo si definiva molti anni fa. Quella dell’informazione italiana è una conformazione tutta particolare, come diceva lei, che ha un fortissimo legame con il mondo della politica, molto differente ad esempio dal sistema informativo anglosassone.

LB: Insomma si è formata una discrepanza fra giornali e lettori…

FP: Sì, è una questione di agende che non combaciano: quella del pubblico e quella dell’informazione molto legata alla politica, ai partiti, alle diverse figure di leadership. Quello delle difformità delle agende, che poi riguarda gli interessi dell’una e dell’altra parte, non è un tema da sottovalutare, ma anche questo però precede il digitale. È una fase in cui si è costruito un rapporto diretto fra chi dà la notizia e il pubblico, che è andato sgretolandosi, perché è venuta mento la centralità delle “persone della strada” nel fare informazione.

LB: Nella presentazione dell’incontro si parla di «capitalismo della sorveglianza», definendolo come il processo grazie al quale «l’intelligenza artificiale, a mezzo di algoritmi, ha fatto esplodere le possibilità di controllo e di manipolazione» degli utenti. In realtà questa definizione, coniata dall’accademica Shoshana Zuboff ed espressa nel suo omonimo libro, è più ampia e riguarda la tendenza a mercificare e controllare ogni esperienza umana per trasformarla in dato comportamentale grezzo da utilizzare per accrescere ancora di più i propri profitti e il proprio potere. In tutto ciò è compresa anche l’informazione, che però diventa a questo punto business. Cosa comporta ciò?

FP: C’è sempre stato un mercato dell’informazione, anche prima del digitale. Il tema semmai è capire cosa cambia nel passaggio al digitale. In particolare quando le testate sono native digitali e sviluppano i loro contenuti in base alle sollecitazioni dei dati, tenendo presenti soprattutto i termini di gradimento delle informazioni e la loro possibilità di viralizzazione. Questo è un aspetto dell’informazione effettivamente nuovo, perché così facendo si abdica allo sviluppare una propria lettura e visione del mondo. In qualche modo cambia lo statuto del giornale, chiaramente un giornalismo totalmente influenzato dai dati segue logiche che sono puramente di mercato.

LB: Non è molto nocivo per l’informazione, anche per quella che non ricorre a metodi così estremi?

FP: Sì, però questa è proprio una deviazione deliberata nella costruzione degli articoli e del rapporto fra titolo, immagine e testo, tale da sollecitare una risposta da parte dell’utente che generi traffico. Questa è sicuramente una distorsione, molto lontana da un contenuto che sia effettivamente informativo. Ma come dicevo prima dobbiamo imparare a riconoscere questi specchietti per le allodole, allo stesso modo di come dobbiamo imparare al supermercato a distinguere le offerte fatte solo per attirare l’attenzione dalle altre. E quindi notare che il prodotto non è poi così allettante come sembrava a un primo sguardo. Non tutto il giornalismo fortunatamente è coinvolto in una logica di clickbait, c’è una via differente che è quella di mettere in pagina contenuti che generino comunque attenzione, engagement e viralità senza ricorrere a queste distorsioni.

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