I grandi scrittori narrano
i loro musei del cuore

Vacanze: città d’arte, musei, gallerie, pinacoteche, collezioni. Quali sono le private, intime inclinazioni, in materia, degli scrittori? Tim de Lisle, direttore di «Intelligent Life», rivista culturale sorella dell’«Economist», dopo una visita con la figlia al Capodanno cinese del British Museum, ha un’illuminazione: perché non creare una rubrica in cui famosi scrittori parlino del loro museo del cuore?

Nasce così «Authors on Museums», serie che si concluderà con 38 pezzi all’attivo, 22 dei quali sostanziano il volume «Treasure Palaces. Great Writers visit Great Museums», a cura di Maggie Fergusson, ora in italiano per Sellerio: «Pezzi da Museo» (pp. 264, euro 16). Ci aspetteremmo una celebrazione dei soliti moloch, dal Louvre al British. E invece no. Quello che viene fuori è che a innamorare non sono i musei autocelebrativi, glorificanti la «grandeur» di un regnante, una stirpe, una nazione. Non i musei «museali», parrucconi, ingessati, accademici, in posa, disumani, indigeribili quanto a dimensioni, quantità, esibizione.

Lo stesso De Lisle ricorda i musei anni Settanta come luoghi noiosi, polverosi, dove si veniva trascinati dai genitori perché non si poteva non averli visti. Il Museo di Storia Naturale? «Uno stramaledetto scheletro dopo l’altro». Paradossalmente, quindi, l’effetto della lettura è liberatorio, un po’ come l’epocale «La corazzata Potëmkin è una boiata pazzesca» di Fantozzi. Tra i musei-macigno, l’unico rappresentato è il Prado. Presenti invece musei molto più piccoli, umani-a misura d’uomo. Una Allison Pearson in gita scolastica, dopo le ineluttabili marce forzate attraverso le infinite sale del Louvre, le pareti degli interminabili corridoi «piene di duchi con certe barbe a forma di pala» e di donne con «parrucche stile barboncino», aveva voglia di tutto tranne che di «un altro stramaledetto museo».

E invece, la stazione in Rue de Varennes si rivela tutto meno che calvario. La dimensione incantevolmente domestica, armoniosa, del Musée Rodin incanta anche lei. Un luogo che, assurdamente, pretenderesti «tuo»: come tutti quelli che ci passano. Anche Roddy Doyle ha scelto una casa, il Lower East Side Tenement Museum, museo che «è difficile accettare che sia effettivamente un museo». Due soli i musei italiani. Sintomatico che, di Firenze, non ci siano gli Uffizi, né, tantomeno, le gelide stanze di Palazzo Pitti- ma l’appartato, riservato, prezioso Museo dell’Opificio delle Pietre Dure.

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