Il dramma a Gaza: «Sono giorni tragici, qui senza gli aiuti non so come andrà a finire»

LA TESTIMONIANZA. Silvia Mandelli lavorava come infermiera a Bergamo e da tempo è nella Striscia: «Anche noi operatori umanitari costretti a sfollare».

Il braccio stretto in modo gentile ma fermo, per avvicinarla a un’ambulanza diretta in Israele. Ad accompagnare fuori dalla Striscia di Gaza Yocheved Lifshitz, 85 anni – uno dei due ostaggi israeliani liberati lunedì da Hamas dopo oltre due settimane di prigionia, la donna che ha dato la mano al miliziano e gli ha detto Shalom, Salam, «pace» – c’era Silvia Mandelli, 43 anni, operatrice umanitaria bergamasca che da marzo si trova a Gaza, dove ha assunto il ruolo di vicecoordinatrice sanitaria dell’Icrc, il Comitato Internazionale della Croce rossa, per la Striscia.

«In questi giorni la situazione a Gaza è decisamente complicata – spiega – anche se era difficile e in deterioramento da anni». Il blocco terrestre, aereo e marittimo imposto da Israele nel 2007 (ma non è facile nemmeno superare il confine con l’Egitto), che da 16 anni impedisce a merci e persone di entrare e uscire liberamente dalla Striscia, «aveva un impatto enorme sull’economia di una popolazione già vulnerabile, dove mancava il lavoro ma anche i rifornimenti di acqua. Il sistema sanitario era già al collasso, con l’impossibilità da parte degli ospedali e dei centri di salute primaria di prendere in carico i pazienti con determinate malattie. In tale contesto, lo scoppio di questa guerra è stato una tragedia per una popolazione già allo stremo».

Con Medici Senza Frontiere

Originaria di Torre Boldone, Silvia Mandelli ha lavorato come infermiera agli Ospedali Riuniti e al «Papa Giovanni XXIII» di Bergamo nei reparti di Gastroenterologia e Trapianti e nella Terapia intensiva neurochirurgica. Operatrice umanitaria nel gruppo di Bergamo di Medici Senza Frontiere, nel 2015 era stata anche in Guinea come promotrice di salute per un progetto di lotta all’epidemia di Ebola. «La decisione di fare questo lavoro viene da lontano – racconta –. Ho studiato infermieristica proprio per lavorare in campo umanitario, nel 2013 sono entrata a far parte di Medici Senza Frontiere e dal 2018 lavoro per il Comitato internazionale della Croce rossa».

La situazione a Gaza

Nonostante a Gaza la situazione fosse già critica, il 7 ottobre è esploso il caos: «Ci siamo svegliati in una giornata che si è rivelata totalmente diversa da ciò che potevamo aspettarci, e lo stesso per i giorni seguenti. Abbiamo dovuto reagire il meglio possibile per supportare la popolazione: abbiamo donato tutto il materiale che avevamo, e ora aspettiamo i rifornimenti che dovrebbero entrare dall’Egitto (attraverso il valico di Rafah, nel sud della Striscia, l’unico non controllato da Israele, ndr), per dare un po’ di materiale agli ospedali». Il conflitto ha colpito anche lo staff internazionale: «Anche noi – racconta Silvia – abbiamo dovuto lasciare le nostre case e i nostri uffici a Gaza City (nella parte centro-settentrionale della Striscia, quella maggiormente colpita dai bombardamenti israeliani, ndr), i nostri effetti personali sono rimasti là. La maggior parte di questi edifici non sono più agibili, per cui attualmente abitiamo in una casa che abbiamo affittato nella parte sud della Striscia. La maggior parte del personale locale della Croce rossa è sfollata, molti hanno perso la casa e parte della famiglia: nonostante tutto cercano come possono di aiutare la popolazione».

«Futuro incerto»

Mentre la guerra non accenna a fermarsi, anche per gli operatori umanitari «il futuro è veramente incerto, non sappiamo come questo conflitto evolverà – spiega Silvia – . Sappiamo solo che si tratta di un disastro umanitario. Gli ospedali sono ormai al collasso: non ci sono più posti letto, i pazienti vengono sistemati e trattati per terra, i medici, gli infermieri e tutto il personale sanitario non lasciano gli ospedali da un sacco di tempo, così accade spesso che scoprono da qui che i loro familiari sono deceduti. Gli sfollati non hanno posti dove andare, quindi affollano le scuole o i campi, e spesso tanti di loro si riparano anche all’interno degli ospedali. Ce ne sono alcuni che ospitano anche 50 mila sfollati: stanno sui materassi lungo i corridoi, nelle scale, vicino alle sale operatorie o nei pronto soccorso. Carburante (per alimentare i generatori di corrente, ndr) non ce n’è più – conclude Silvia –, i servizi essenziali stanno finendo: senza l’ingresso di aiuti umanitari non so veramente come potrà andare a finire».

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