Un’altra impresa polare dell’uomo che sfida il gelo

Ultramaratona. Paolo Bosco, di Fara Gera d’Adda, ha concluso 5° i 510 km della 6633 Arctic Ultra, resistendo a -44°: «Solo una slitta con l’essenziale».

Metti una sera a cena con gli Inuit. A Paolo Bosco è capitato, e non c’entrano le allucinazioni visive all’ordine del giorno per chi affronta sfide in cui il corpo va oltre i suoi limiti: «Eravamo in quattro, potete cercare gli altri testimoni: ci hanno portato del cibo caldo, il tutto condito da uno sguardo di quelli riservati ai matti…». Cose che capitano solo dalle parti del circolo polare artico, da dove il 39enne ultramaratoneta di Fara Gera d’Adda è fresco (proprio il caso di dirlo) di ritorno.

La sua sfida è stata la 6633 Arctic Ultra classic edition, gara di 380 miglia (l’equivalente di 510 km) nello Yucon canadese, con partenza da Eagle Plains e arrivo a Tuktoyaktuk, roba che la gente comune conosce tramite i documentari. «Come ci si orienta? Quello è il minore dei problemi, c’è un’unica enorme strada – scherza il portacolori del Podisti Faresi –. Il problema è percorrerla: ogni passo in avanti ne costa dieci in più di uno nella vita di tutti i giorni». Diciassette partecipanti da tutto il mondo, sei finisher (tra cui lui, in nove giorni esatti, quinto posto), Alive-Bosco si è rimodellato al clima e alle situazioni come il ferro caldo che lavora come carpentiere nella vita di tutti i giorni.

In gara trainando una slitta

Ha gareggiato in regime di autosufficienza alimentare ed esistenziale: «Trainando una slitta con sopra l’essenziale, e pure meno. Non avevo né telefono, né un orologio: solo una tenda, cibo liofilizzato e materiale per coprirmi».

In controtendenza con le abitudini è concesso il lusso di dormire due ore per notte: «Io non dovevo fare il nuovo record della gara come i due Royal Marine che l’hanno vinta». Sfidando temperature estreme, a tratti anche di 44 gradi sotto lo zero: «Questa è stata la cosa più difficile, perché ogni ora si creavano scenari diversi – ricorda dopo aver sfiorato pure una tempesta di neve (la gara non è passata per il famigerato Wright Pass) –. Siamo passati attraverso raffiche di vento e paesaggi che non avrei immaginato neanche con la fantasia».

Alla più estrema delle sue sfide, c’è arrivato passando dalla Rovaniemi 150 che un anno fa di questi tempi chiuse sul podio, piano B di una cosa ancor più estrema: «Ovvero la Artic Ultra a cui penso da un po’ – confessa –. Ma da dopo l’amputazione di Zanda, i criteri di selezione sono diventati ancora più stringenti: io parlo ancora un inglese troppo basic».

«La dedica? Alla mia Federica»

La base (vita) che più di tutte è stato felice di trovare è stata quella del penultimo giorno: «Poco prima, a causa di una disattenzione, sotto i pantaloni termici (di tre strati diversi) è entrato del cristallo di ghiaccio: poteva essere l’inizio della fine, invece tutto si è risolto per il verso giusto». Tanto che ad attenderlo, al traguardo, c’era (a sorpresa) il caldo abbraccio della compagna di vita Federica: «Dedico questa impresa a lei e a tutti gli amici e le aziende che mi hanno sostenuto spingendomi a distanza». Il premio più bello, insieme alla medaglia da finisher, è guardare il fisico dopo il rientro: «Ho una sola piccola vescia sul piede, me la sono cavata meglio di tanti altri». Tanto che chiusa una sfida, inizia già a pensare alla prossima: «Ho un conto in sospeso con il L’Icon, un triathon estremo (195 km tra Livigno e la Svizzera, ndr) che lo scorso anno mi ha messo ko nella frazione a nuoto: una beffa rischiare l’assideramento per uno che ha iniziato dall’arrampicata, ma non chiedetemi chi me lo fa fare...».

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