Messa alla prova, dal 2014 applicata per 6.398 adulti

I DATI. Lucia Manenti (Uepe di Bergamo): in 10 anni crescita esponenziale. «Le prossime sfide? Adesso c’è quella di migliorare l’aspetto riparativo». L’approfondimento su L’Eco di Bergamo di lunedì 22 aprile.

Dieci anni fa, il mondo della giustizia faceva un passo in avanti in una direzione innovativa: mettere alla prova – letteralmente – chi finiva nei guai per «reati di minore allarme sociale», inciampi che possono capitare anche agli «insospettabili». Nel 2014 veniva infatti introdotta anche per gli adulti la messa alla prova, quell’istituto giuridico – mutuato dalla giustizia minorile, dove si applica dal 1988 – che consiste nella sospensione del processo per reati minori (dalla guida in stato d’ebbrezza in cui si causano incidenti al piccolo spaccio, da reati contro il patrimonio di poco conto ad altre fattispecie con una pena edittale massima di 4 anni), avviando nel contempo lavori di pubblica utilità e attività «riparatorie». Così, quando l’esito della messa alla prova è positivo, il reato si estingue senza ulteriori conseguenze.

Partenza lenta e boom

Nel giro di dieci anni, sono circa 6.400 i bergamaschi che hanno beneficiato di questa «opzione» giudiziaria, certo traendone un vantaggio per sé, ma anche restituendo qualcosa alla collettività: chi facendo volontariato nelle comunità per persone con dipendenze, chi al fianco di anziani o persone con disabilità, chi mettendosi al servizio di Comuni o parrocchie o associazioni, chi al gattile o al canile, chi nelle biblioteche, e via elencando. Nero su bianco, la messa alla prova per gli adulti «nasce» con una legge approvata il 28 aprile 2014. C’è voluto però qualche tempo per tarare la macchina della giustizia e vederne le prime applicazioni, misurabili in maniera più nitida dal 2015. I dati dell’Uepe di Bergamo – l’Ufficio per l’esecuzione penale esterna, il ramo del ministero della Giustizia che gestisce questi procedimenti – raccontano di una crescita costante: 212 persone in messa alla prova nel 2015, poi 334 nel 2016, altre 444 nel 2017, 687 nel 2018, 827 nel 2019.

La messa alla prova per gli adulti «nasce» con una legge approvata il 28 aprile 2014. C’è voluto però qualche tempo per tarare la macchina della giustizia e vederne le prime applicazioni, misurabili in maniera più nitida dal 2015.

Il Covid ha impattato anche qui, rallentando fisiologicamente le procedure e frenando i numeri per un paio d’anni (672 messe alla prova nel 2020 e 787 nel 2022), tornando poi a 900 persone coinvolte nel 2022 e toccando il record di 1.149 bergamaschi in Map (l’acronimo di messa alla prova) nel 2023. Nel 2024, solo tra il 1° gennaio e l’8 aprile, altri 386 bergamaschi hanno avviato questo percorso.

Le origini della misura

Lucia Manenti, direttrice dell’Uepe di Bergamo, che ha sede in piazza della Libertà, legge i numeri tracciando una sintesi: «In questi dieci anni abbiamo avuto un trend di continuo aumento, una crescita esponenziale. Dal 2015 Bergamo ha immediatamente avuto un exploit perché senza esitazioni il nostro territorio si era adoperato per introdurre questa possibilità, grazie a uno specifico protocollo stipulato insieme a Tribunale e Camera penale, uniformando i passaggi». Come tutte le novità, occorreva trovare un linguaggio comune. Partendo da un problema solo apparentemente teorico: come «convertire» una possibile pena detentiva in attività socialmente utili, cioè l’essenza della messa alla prova?

«In quel periodo – ricorda Lucia Manenti – Milano aveva fatto da apripista costruendo un modello con diverse fasce di reati, attribuendo a ciascuna casistica un numero minimo e massimo di ore per le attività di messa alla prova. Quel programma vedeva come parte prioritaria e imprescindibile il lavoro di pubblica utilità, con la necessità di fare reti tra enti che accogliessero queste persone».

Percorsi e situazioni

Progressivamente, la rete di chi accoglie persone in messa alla prova si è ampliata. Ed è fondamentale anche per costruire, quasi in maniera più sartoriale, percorsi adatti alle singole situazioni: «Più enti danno disponibilità e più si ha un incontro idoneo e calzante al profilo e all’esperienza della persona che entra in messa alla prova – riconosce Manenti –. Quando questo incontro è molto affine alle sensibilità, può anche capitare che quella persona si appassioni e resti come volontario di quella realtà anche una volta terminata la misura della messa alla prova».

I nodi e le sfide

La riforma Cartabia ha poi introdotto alcune novità: «Non è andata in porto la proposta di estendere la messa alla prova per reati con pene edittali fino ai 6 anni, ma è rimasto il tetto dei 4 anni, però sono state ampliate le fattispecie di reato a giudizio diretto che possono diventare oggetto di messa alla prova, così come la possibilità che sia anche il pubblico ministero a chiedere la messa alla prova (e non solo il difensore, ndr), favorendo ancor di più il ricorso a questa misura», spiega Lucia Manenti. Di fronte a numeri così importanti (nella fase antecedente alla gestione della messa alla prova, l’Uepe è chiamato a svolgere delle specifiche indagini di valutazione sulla persona destinataria del provvedimento), i carichi di lavoro sono certo rilevanti.

«Per la messa alla prova contiamo su due assistenti sociali a tempo pieno, più un’altra assistente sociale esterna e una pedagogista . Se la messa alla prova è stata introdotta solo nel 2014, si è dovuto attendere il 2019 per avere personale integrativo dedicato alla gestione di queste attività»

È qui che entra in gioco il capitale umano della giustizia, notoriamente in sofferenza d’organico: «Per la messa alla prova contiamo su due assistenti sociali a tempo pieno, più un’altra assistente sociale esterna e una pedagogista – prosegue Manenti –. Se la messa alla prova è stata introdotta solo nel 2014, si è dovuto attendere il 2019 per avere personale integrativo specificamente dedicato alla gestione di queste attività. La riforma Cartabia ha stabilito degli ulteriori aumenti d’organico, entro fine anno ci aspettiamo del nuovo personale». Che è appunto fondamentale: «Avere personale dedicato consente di avere un osservatorio più tecnico e specialistico, la possibilità di calibrare al meglio i percorsi di ognuno – conclude Lucia Manenti – . Le sfide? Una, sicuramente, è quella di migliorare l’aspetto “riparativo”: si potrebbe lavorare ancora di più per ragionare su percorsi riparativi legati alla specifica condotta di chi è in messa alla prova, per aumentare la riflessione sulla propria esperienza personale».

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