Sottopagati e precari, l’allarme: «In aumento i lavoratori poveri»

Il caso.In dieci anni raddoppiati i contratti atipici. Un dipendente a chiamata guadagna meno della metà di uno «classico». La denuncia dei sindacati. L’approfondimento su «L’Eco di Bergamo» di domenica 4 dicembre.

Lavorare, ma annaspare. Annaspare, e continuare a cercare altri lavori per non soffocare. La definizione è ampia e sfaccettata, ma certo indicativa: «lavoro povero». Dentro, ci sono storie e persone diversissime: chi lavora con un orario di lavoro pieno ma ha una retribuzione che non permette di superare la soglia di povertà, oppure chi vive una situazione lavorativa frammentata, che come un trapezista cerca di planare tra un contatto e l’altro senza però una rete di protezione sociale.

Proprio perché i contorni del fenomeno sono labili, raccontarlo attraverso le cifre è complesso. Ma già dai dati dell’Inps, per esempio, si coglie una tendenza da cui anche la Bergamasca non sfugge: le forme di lavoro atipico restano in costante aumento. Nel corso del 2021 sono stati 26.823 i bergamaschi che hanno lavorato «in somministrazione», sostanzialmente tramite agenzie interinali (e non assunti direttamente dalle aziende in cui operano), per un totale di 3,5 milioni di giornate lavorative erogate in questa maniera: il dato è praticamente raddoppiato nel giro di un decennio, dato che nel 2012 i lavoratori in somministrazione erano stati 14.122 e le giornate lavorative 1,6 milioni. Il peso del Covid è relativo, visto che anche nel 2018 e nel 2019 – dunque appena prima di precipitare nella pandemia – si viaggiava a 23-24mila lavoratori in somministrazione. Un aumento recente, seppur con una traiettoria più altalenante, filtra anche dalle cifre sul lavoro intermittente, cioè quello a chiamata: 12.076 bergamaschi hanno vissuto così nel 2021, per 637.078 giornate lavorative; è vero che nel 2012 si era a 11.727 lavoratori a chiamata e a 608.900 giornate lavorative, quindi su volumi quasi identici, ma nel frattempo si era scesi fino ai 5.283 lavoratori a chiamata del 2016 (con 343mila giornate lavorative).

I «part time involontari»

Danilo Mazzola, che per la segreteria provinciale della Cisl di Bergamo segue la delega del mercato del lavoro, parte da quest’evidenza: «La significativa flessibilità del lavoro presente da alcuni anni nel nostro Paese ha avuto come conseguenza degli effetti legati a orari di lavoro annuali o giornalieri ridotti, il cosiddetto part time involontario, ponendo le basi per la nascita del “lavoro povero”, in particolare nelle situazioni familiari in cui questo sia l’unico reddito disponibile». Così, si finisce per «lavorare senza poter riuscire a vivere dignitosamente»: «Una condizione che va affrontata in modo pragmatico – rimarca Mazzola –, perché spesso dietro a queste situazioni si trovano persone che stanno spesso ai margini del mercato del lavoro e per le quali andrebbero previsti percorsi di supporto e di crescita professionale utili alla loro ricollocazione, in un mercato del lavoro bergamasco che in alcuni settori denuncia difficoltà a trovare manodopera».

La forbice salariale

Quantità e qualità. La differenza concreta tra le diverse tipologie di lavoro è evidente anche nelle cifre. Mediamente, in Bergamasca la giornata lavorativa di un «intermittente» frutta 46 euro e quella di un lavoratore in somministrazione sale a 75 euro. Un lavoratore dipendente – la forma più classica, nonché la più tutelata – del privato guadagna in media 95 euro, un dipendente del pubblico arriva a 106 euro. In pratica, un lavoratore a chiamata guadagna meno della metà di un lavoratore «tipico».

I «lavori intellettuali»

Una recente indagine dell’Istat ha stimato che il 5,3% delle famiglie lombarde vive una situazione di «bassa intensità lavorativa», cioè si barcamena tra contratti spezzettati o con incarichi di poche ore alla settimana, con una sopravvivenza a ridosso della soglia di povertà. Proiettando sulla Bergamasca questa stima, si parla di circa 25mila nuclei familiari. La quotidianità di chi si confronta con questi lavoratori restituisce un quadro molto composito. Dal terziario – la grande distribuzione che attinge alle agenzie interinali o i servizi di pulizia in cooperativa sono alcuni esempi – alla logistica, dai rider ai lavoratori più qualificati. Perché una delle più fragili frontiere del «lavoro povero» è quella legata alle «professioni intellettuali»: operatori della cultura, della consulenza, della progettazione o del sociale, persone con formazione spesso elevata ma che lavorano a contratto o a partita Iva senza stabilità e senza tutele. «Nell’immaginario – ragiona Paola Redondi, segretaria generale del Nidil-Cgil Bergamo, la categoria dedicata agli atipici –, per lavoro povero si pensa sempre ai servizi o alla logistica, dove si fanno poche ore o ci sono aree grigie. È vero. Ma noi vediamo anche molti autonomi in questa situazione: parliamo di lavoratori ad alta qualificazione, che fatturano fino all’ultimo euro, ma con redditi inferiori alle medie dei lavoratori dipendenti. Sono persone che vivono di contratti brevi, o di un contratto dopo l’altro, senza tutele per i periodi di calo del lavoro o di assenza: una malattia, la maternità, l’esigenza di assistere un familiare sono motivi che portano a interrompere un lavoro, senza però adeguati ammortizzatori. Servirebbero delle risposte specifiche per questi tipi di lavoratori».

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