Una mappa di Bergamo del 1680
Storia di una Città Alta quasi «immutata»

Una planimetria prospettica di Bergamo Alta del 1680 si rivela preziosa per la storia urbanistica e sottolinea una forte presenza di istituti religiosi e caritatevoli. E nella toponomastica una litania di santi.

«Un documento prezioso per la lettura di alcuni dati della storia urbanistica bergamasca». Così Sandro Angelini, definiva una rara mappa del 1680 stampata a Venezia da Stefano Scolari, a corredo del suo volume, altrettanto prezioso, «Bergamo d’altri tempi» (Istituto Italiano di Arti Grafiche, 1976). Si tratta di una veduta «a volo d’uccello» di Bergamo della quale si conosco solo due esemplari, uno dei quali appartenente a Emilio Moreschi, ad della Fondazione Bergamo nella Storia, studioso e collezionista di antiche carte geografiche. Un documento che abbiamo avuto modo di esaminare in un precedente servizio («L’Eco di Bergamo» 11 maggio 2020) rilevando una serie di squarci della città di oggi che sono rimasti abbastanza simili al XVII secolo.

«In realtà, a un più approfondito sguardo quella che potremmo chiamare la mappa Scolari evidenzia che Città Alta è rimasta immutata nel tempo – afferma Moreschi - persino in gran parte della toponomastica più antica».

L’autore della planimetria prospettica - che si è probabilmente ispirato a un precedente lavoro del bergamasco Giovanni Macheri - ovvero il disegnatore e incisore dal «segno secco, preciso ed ingenuo», scrive Angelini, ha rappresentato «alcuni tipici edifici con sghembe rotazioni per un più immediato riferimento agli elementi che li caratterizzano, altri elementi sono ricavati un po’ di maniera, come le sequenze di casupole lungo i borghi».

A parte le disquisizioni sul tratto del bulino, la mappa resta una fonte storica notevole che evidenzia organismi monastici, edifici pubblici, civici e militari, Mura Venete e Muraine, rogge e canali e così via.

«Molte – chiosa Angelini – sono le planimetrie di Bergamo e del suo territorio contenute in testi di geografia o di viaggi, punteggiate di toponimi dialettali con indicazioni a volte sconcertanti per un’ordinata ricostruzione della forma urbis, interpolate da incisori che dovevano ricostruire complete planimetrie su scarse indicazioni dei relatori o deducendole da precedenti schermi».

L’incisore e disegnatore probabilmente non si accontentò dei precedenti, ma preferì l’indagine sul campo, complice una diretta e approfondita conoscenza dei luoghi. Non si spiegherebbe altrimenti la precisione e la pignoleria nella rappresentazione in particolare degli edifici di culto, oltre che dei toponimi.

Addentrandoci in una più dettagliata e minuziosa visione della mappa, relativamente a Città Alta, balza evidente la litania di nomi dei santi riguardanti vie e vicoli, conventi, monasteri e chiese. Una Città Alta ricca di edifici - non solo religiosi -, urbanizzata, rispetto a una Città Bassa caratterizzata da ampi spazi verdi e campi. Due realtà divise dalle Mura cinquecentesche che di fatto non furono mai messe alla prova del fuoco.

«Da questa mappa si potrebbe riscrivere la storia monastica di Bergamo Alta, di ordini e congregazioni, ormai scomparsi», aggiunge Moreschi.

L’impronta religiosa e caritatevole è evidente: dal Duomo di San Vincenzo, il primo patrono di Bergamo alla Basilica di Santa Maria Maggiore, al monastero delle monache di Rosate (oggi liceo classico Paolo Sarpi) e sul lato opposto, vicino al «Palazo Novo» (oggi Biblioteca Civica Angelo Mai), la chiesa di San Michele; tra il Mercato del fieno e il Mercato delle scarpe la chiesa di San Pancrazio e San Rocho (Rocco).

Un po’ più a nord, il complesso di San Francesco che nella mappa è quasi addossato alla Rocca raffigurata con elementi più che altro simbolici.

A nord della mappa, spicca la chiesa della Madonna della Fara con una colonna, una sorta di cippo per misurare le distanze con la Valle Brembana.

In ordine sparso potremmo ancora citare i monasteri, da Santa Grata a Sant’Agata, a Sant’Agostino, correttamente posizionato tra il bastione omonimo e quello del Pallone, ricco di particolari, come le arcate del chiostro maggiore.

Ogni angolo di Città Alta insomma ha la capacità di rievocare pagine di storia degli ordini religiosi che hanno lasciato un’impronta divenuta indelebile nella società e non solo perché i loro nomi sono cesellati nella toponomastica, quando per il ruolo avuto nei secoli.

È noto lo spirito caritativo che ha accompagnato la vita di sodalizi e congregazioni. Ad iniziare dalla Misericordia Maggiore ovvero la Mia, sorta nel lontanissimo XIII secolo non a caso per opera di due domenicani, il vescovo Erbordo e il beato Pinamonte da Brembate, per passare nei tempi a seguire a tanti altri istituti che si sono egualmente adoperati nell’assistenza di carcerati, dei bisognosi, dei poveri.

Già nel Medioevo la Chiesa organizzò i primi luoghi di accoglienza, i primi ospizi, i primi ospedaletti, grazie soprattutto a persone consacrate, frati, presbiteri, suore, e attraverso i laici riuniti nelle confraternite.

E questa impronta di fede della città e della religiosità della sua gente si specchia ancora una volta nella mappa che a un primo impatto fa cadere l’occhio in alto – alla destra del Leone di San Marco – dove spicca la raffigurazione dei santi patroni Alessandro e Vincenzo, sant’Antonio da Padova, il Bambin Gesù con il globo e un angioletto che sorregge l’elmo di sant’Alessandro.

Una sequela di santi che abbracciano le Città Alta e Bassa, punteggiate da mille croci e campanili, i cui rintocchi hanno scandito le giornate, le festività, i lutti, le tragedie di una intera comunità.

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