E’ ancora una volta tutto vero. Dieci partite senza perdere, ventiquattro punti, sette vinte, tre pareggiate. Sedici gol segnati, sei subiti. Vale la pena metterli in fila, questi numeri, e pensare a cosa potrà accadere quando i margini di miglioramento di cui parla Gasp saranno completi, realizzati. Perché tanti pensano che questa Atalanta prima o poi cederà il passo e andrà indietro in classifica, ma intanto le giornate passano e, al 90’, l’Atalanta è sempre lì, a fare il solletico alla vetta. Tutto questo è successo perché una storia straordinaria - quella della prima era Gasperini a Bergamo - è stata dichiarata chiusa e una pagina è stata girata. Con coraggio, con pragmatismo, e con una qualità che è tanto grande quanto rara: l’umiltà. L’umiltà di capire quel che serviva fare, che non era rinnegare un calcio meraviglioso, ma aspettare, prendere tempo, fare le cose più semplici che sono sempre le migliori, quando si è in difficoltà. La nuova ricchezza dell’Atalanta viene dunque dall’umiltà con cui ha saputo prendere atto del cambio necessario rispetto al passato: è la lezione del girone di ritorno della scorsa stagione. Abbiamo vissuto una manciata di giornate con un calcio più grigio, utile e in parte utilitaristico, quasi speculativo ma mai in «stile Allegri», premiato in maniera eccezionale dai risultati e da una classifica che infonde coraggio nel mettere a frutto questa nuova ricchezza. La nuova Atalanta non è più la squadra che parlava una lingua sola, alla fine parlandosi davanti allo specchio, ma ora è capace di fare più cose durante la stessa partita. Aggredisce quando serve, non sempre e comunque. Aspetta quando serve, non sentendo quel tipo di gioco come una pelle troppo stretta, come un abito troppo povero per lei, abituata solo alle «grande soirée». Ora le lingue calcistiche in campo sono più d’una, il concerto è polifonico, non monocorde. E in tutto questo c’è un meraviglioso mix di giovani impertinenti e vecchi dal grande affidamento. Persino in crescita, rispetto al passato. Fine del prologo, ma ce n’è, ancora, da dire.