Il «caso tamponi» e la Lazio. Il metodo Uefa e la lezione che la Serie A deve imparare: togliersi margini di «manovra»

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C’ è un giallo che rischia di durare persino più dello spoglio delle elezioni americane: il caso tamponi alla Lazio. Ricapitoliamo le tappe di questa vicenda. Lunedì 26 ottobre, prima di Bruges-Lazio di Champions League in calendario mercoledì 28, il gruppo squadra della Lazio viene sottoposto ai tamponi dalle strutture Uefa: procedura uguale per tutti. Immobile risulta positivo, e resta a casa. Venerdì 30 la squadra viene sottoposta a un nuovo giro di test, in vista di Torino-Lazio di domenica 1 novembre, e Immobile risulta negativo, secondo l’esito dato dal laboratorio di Avellino scelto dalla Lazio per i suoi esami anti-Covid. Stesso risultato nel giro di tamponi del giorno dopo, il 31. Quindi l’attaccante va a Torino e segna anche il gol su rigore del 3-3. La Lazio poi vince nel recupero, per 4-3. E siamo alla penultima puntata. Il 2/11, il giorno dopo la partita di Torino, altro test Uefa che precede la partita di San Pietroburgo contro lo Zenit. E – ohibò – Immobile risulta positivo. Ventiquattr’ore prima era negativo, al punto da giocare. Più prudente, ma era già un passo avanti, il laboratorio di Avellino: «Debolmente positivo». In ogni caso, niente Zenit. Ultima puntata: Immobile, Leiva e Strakosha positivi ai test effettuati al Campus biomedico di Roma prima della partita con la Juventus. Perché la Lazio, nel frattempo, ha cambiato laboratorio. E sempre nel frattempo, Simone Inzaghi nella conferenza stampa della vigilia aveva messo le mani avanti, annunciando che i tre giocatori sarebbero stati a disposizione, come a suo parere sarebbe dovuto accadere persino in Champions League. Fine del riassunto, lunghetto ma ne valeva la pena. La vicenda, comunque vada a finire, ci conferma una cosa e forse, soprattutto, ne risolverà una. Nel frattempo, hanno finito in Nevada.