Cato, terzo disco: «Più rock, torno alle mie origini»

Hanno gli angoli le canzoni di Cato, il bergamasco Roberto Picinali. Vivono in stile trasparente, viaggiano dal folk al rock, ma in fondo disdegnano le classificazioni. Suonano minime stavolta, nei solchi del disco «Nella testa ridi»: ritmi secchi, chitarre asciutte che portano dove il cuore cerca di raccontarsi.

Il terzo album del cantautore ha un’anima altra rispetto ai precedenti, una direzione più netta, decisa. Parte con un canto di «Cicale» accompagnato dalla chitarra acustica. «Rispetto ai dischi precedenti questo ha preso una strada», spiega Cato. «Il primo nasceva dal bisogno di uscire allo scoperto con un pugno di canzoni; il secondo era pieno di colori, di musicisti, raccontava di viaggi fatti. Le canzoni erano diverse tra loro, legate a tante suggestioni e altrettante influenze. Nel nuovo torno alle origini, più rock, da band. Ho coinvolto meno artisti, ho iniziato a produrre con Francesco James Dini del “1901 Studio”. È lo stesso che mi aveva affiancato nei tre singoli che erano giù usciti e ora mi ha aiutato in studio di registrazione».

Com’è andata la collaborazione?

«Devo ringraziarlo. Mi ha insegnato un sacco di cose sulla stesura del brano. Il modo di renderlo più intrigante attraverso qualche accorgimento. Il suono in effetti è un po’ spigoloso, rock».

«Dimmi come fai» e «Non so dire» picchiano in testa, come schegge di punk&roll.

«Sono belli decisi. Anche sul piano della velocità. Potremmo dire post punk, anche se le categorizzazioni lasciano sempre il tempo che trovano. Etichettare la musica è sempre più difficile. Comunque nel disco c’è anche un pezzo reggae, “Cogli la mela”; anche in “Muoviti” c’è un piccolo riff in levare. È anche il pezzo più impegnato dell’album, il più rivolto al sociale. Le ballate sono “Nella testa ridi” e “Lei con la bicicletta”. Nell’insieme è un disco più minimal degli altri. È molto pensato per la traduzione live, con pochi elementi al seguito. Di solito non siamo mai più di tre in concerto».

Quando scrive una canzone, quando la cerca, cosa vuole raccontare, una fantasia, una storia, l’attimo di uno sguardo, una sensazione?

«Parto sempre da un riff di chitarra. Sono sul divano e vago tra gli accordi. Qualche volta mi metto via qualcosa, lo scrivo o lo registro. A volte le canzoni arrivano da un lungo tempo, da una scrittura faticosa. Altre nascono da un incontro, da un’osservazione. Di solito racconto quello che vivo. Solo qualche volta mi capita di svegliarmi la mattina e di suonare alla chitarra un pezzo che mi è venuto a trovare nella notte. In quel caso la canzone è bella e che pronta. La notte porta anche canzone. A volte costruisco i pezzi componendo un collage di suoni e parole».

Da questo nuovo disco cosa si aspetta?

«Col tempo ho imparato a mettere da parte tutte le aspettative. Ma sono consapevole di quanto sono fortunato dopo 25 anni di musica. Fare un altro disco, scrivere altre canzoni è un lusso. Andare incontro a qualcuno con i miei racconti è un privilegio. E mi fa piacere aiutare con la musica qualche realtà. Stavolta parte dei proventi del disco andranno alla Yanapakuna Onlus, a sostegno dei bambini poveri che vivono nei quartieri emarginati di Potosì, in Bolivia. Dopo tanto tempo essere ancora qua ad autoprodurmi un album è comunque un traguardo».

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