Nomadi, un viaggio vagabondo di 60 anni: due volte in Bergamasca

L’INTERVISTA. Il 3 aprile la storica band sarà sul palco del Teatro Donizetti e il 29 giugno a Clusone. Carletti: «Siamo entrati nel tessuto connettivo della musica di questo Paese, ai nostri concerti sempre tanta gente ad ascoltarci».

Il sessantesimo della carriera i Nomadi l’hanno vissuto come fan sempre, on the road. Più di 80 concerti, una coda nel 2024 che prevede ben due date dalle nostre parti, il 3 aprile al Teatro Donizetti di Bergamo (inizio ore 21; biglietti ancora disponibili), il 29 giugno a Clusone, nel dopo festival de «Lo spirito del pianeta».

È un tour senza fine che Beppe Carletti e compagni affrontano da sempre, sin da quando il frontman era Augusto Daolio, vero e proprio spirito guida della band. L’esordio avviene nel 1963, nel 1966 inizia la collaborazione con Francesco Guccini, nel 1972 esce «Io vagabondo», canzone simbolo, sorta di inno multigenerazionale. Per festeggiare l’anniversario i Nomadi non si son fatti mancare niente: un nuovo album, «Cartoline da qui», con la collaborazione di Guccini e Ligabue, un documentario Rai, «Nomade che non sono altro», il cofanetto antologico uscito lo scorso dicembre: «È stato veramente bellissimo!». In quattro Cd e due Dvd i primi anni dei Nomadi, tanto materiale raro e un inedito con la voce di Augusto: «E il treno va».

«Siamo passati al sessantunesimo anno senza neppure rendercene conto», spiega Carletti. «A dire il vero non avrei mai creduto di arrivare fin qui, con tanti riconoscimenti. A luglio ci ha ricevuto il presidente Mattarella, il cardinale Matteo Maria Zuppi mi ha voluto conoscere. Tra l’altro mi ha chiesto il significato di una canzone degli anni Sessanta che neppure ricordavo. La musica mi ha portato a conoscere personalità che non avrei mai pensato d’incontrare. E poi c’è la soddisfazione di vedere tanta gente che ci viene ad ascoltare, anche se le radio non ci trasmettono. La Rai ci ha chiesto giusto l’anno scorso di fare un documentario ed è stato bello. Sto vivendo un buon momento, spero che duri il più a lungo possibile. Anche quest’anno i concerti previsti sono davvero tanti».

Come vi spiegate questa durata?

«Certe volte mi dico: non è possibile. Non siamo da nessuna parte, né in radio, né in tv. Eppure quando facciamo i concerti la gente arriva ad ascoltarci. Siamo entrati nel tessuto connettivo della musica di questo Paese. Forse ci siamo guadagnati anche un posto nell’immaginario collettivo: “Io vagabondo” è quasi un inno d’Italia. È una canzone che dice tante cose, è di tutti senza distinzioni di schieramento. Negli anni Ottanta non la cantavamo neanche più, l’ha rilanciata Fiorello quando faceva il karaoke in televisione. L’abbiamo ripresa ed è stato un crescendo. Vedere al concerto tante generazioni che la cantano mi emoziona ogni sera. Siamo stati coerenti e questo ha pagato».

Tutto ha un prezzo però.

«Con tutti i generi musicali che si sono fatti strada man mano dagli anni Sessanta ad oggi, mantenere la retta via non è stato facile. Noi però abbiamo sempre mantenuto la rotta, siamo rimasti fedeli a noi stessi. Negli anni Ottanta non avevamo la casa discografica, ma non ci siamo piegati alla logica di quel che andava. Alla fine non è stato così difficile mantenere la coerenza. Siamo Nomadi e quello sappiamo fare. Quando è morto Augusto ci siamo chiesti se andare avanti. Io e il produttore ci siam detti: guardiamo la musica e i testi, pensiamo a cosa avrebbe scelto Augusto».

Daolio è l’anima della band. Quanto è stato importante nel cammino dei Nomadi, prima e dopo.

«Me lo sento accanto in tutto quel che faccio. Abbiamo cominciato da ragazzini, abitavamo nello stesso paese. Quando il gruppo ha cominciato a girar bene mi disse: pensa Beppe se un giorno non ci dovessimo essere più e il gruppo potesse continuare ad esistere lo stesso. Eravamo amici, non colleghi di palco. Siamo diventati adulti insieme, abbiamo riso, pianto, più riso che altro. Ci siamo tanto divertiti. Ed io vado avanti pensando al suo spirito. Si sarebbe meritato di festeggiare questi sessant’anni di musica. Lui era capace d’interpretare il pensiero popolare. È sempre vivo nel cuore di chi l’ha conosciuto e anche di chi non l’ha conosciuto di persona e ai concerti lo rivede nel video di “Aironi neri».

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