Educare attraverso lo sport: un libro per aiutare a gestire le emozioni

Uno dei compiti più importanti del mister di calcio giovanile è educare tramite lo sport. Questa è la grande sfida raccontata dagli psicologi Gian Marco Marzocchi e Andrea Fredella nel libro «A scuola di calcio» (Edizioni Erickson, 16 euro, 177 pagine).

«Sono circa un milione i ragazzi dai 6 ai 18 anni che giocano a calcio da tesserati, dedicando a questo sport almeno 5 o 6 ore la settimana. Ci sono tante occasioni per passare messaggi educativi tramite la pratica sportiva», spiega Gian Marco Marzocchi, professore associato di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione alla Bicocca e psicologo presso il Centro per l’Età evolutiva di Bergamo.

«Di questi giovani calciatori uno su centomila diventerà professionista, quindi è giusto focalizzarsi sugli altri 99mila e capire come il calcio possa essere uno strumento bello e motivante che favorisce una crescita sana dei bambini e delle bambine», prosegue Marzocchi. A ogni età ci sono obiettivi calcistici da proporre, che allenano diverse aree di sviluppo. Un bambino di 6 o 7 anni, che inizia a giocare e apprende concetti basilari (ad esempio non dare le spalle all’azione in corso o non buttare mai via la palla a caso), rafforza non solo le sue capacità motorie, ma anche di ascolto, attenzione, comunicazione.

Così, man mano che si cresce e si affina la tecnica calcistica, si impara la collaborazione - in difesa e in attacco -, la coordinazione, l’uso dei neuroni a specchio per la lettura di azioni e gesti e molto altro ancora.

«È sempre più chiaro il legame fra lo sviluppo cognitivo e quello motorio – spiega Marzocchi –. Una buona prestanza fisica aiuta a essere più brillanti e le endorfine rafforzano la predisposizione a essere attivi. Uno sport di squadra aiuta la socializzazione e il team working, importante non solo in ambito sportivo ma anche scolastico e lavorativo perché insegna a vincere come gruppo e non solo come individuo, a scapito di altri. Si imparano a gestire le emozioni più calde: un buon allenatore aiuta a gestire gli stati d’animo positivi e negativi, parlando sia al bambino deluso sia a quello esaltato».

Per questo l’allenatore di una squadra giovanile deve essere, prima di tutto, un educatore. Il fine ultimo non deve essere vincere il campionato – anche se la competizione non va negata –, ma utilizzare il calcio per una sana socializzazione e crescita educativa. «Così come i genitori stanno attenti alla scuola dove iscrivere i figli, così possono fare anche con le società di calcio, chiedendo un colloquio con i dirigenti – raccomanda Marzocchi –. Allenatori troppo aggressivi fanno da modello e sono contro educativi».

Di contro, il calcio può essere una vera e propria agenzia educativa, perché molto motivante per i giovani atleti, che vogliono vincere e fare bene. «È anche un modo per promuovere l’inclusione, a diversi livelli – aggiunge Marzocchi –. Un classico sono i bambini che hanno disturbi di apprendimento e magari sono più competenti sulla dimensione motoria o visuo-spaziale, quindi il calcio può aiutarli a compensare e ad avere una immagine di sé più positiva. Ci può essere anche chi ha problemi comportamentali o di attenzione ed è motivato a migliorare, impegnandosi per raggiungere i risultati. Ci sono poi calciatori con vere e proprie disabilità, che traggono beneficio dalla pratica sportiva».

Dietro una partitella c’è molto di più.
«Lo abbiamo visto con l’emergenza sanitaria causata dal Covid e le limitazioni alle attività sportive – conclude Marzocchi –. Sono aumentati i bambini con problemi di gestione della rabbia e delle emozioni. La pratica sportiva non è un semplice “sfogo”, ma aiuta a imparare a regolare e modulare le emozioni. Senza questo spazio faticano a gestirle».

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