Francia, un sasso gettato nello stagno cattolico

Già la frase in esergo, di Charles Péguy, è folgorante: «Non ci sono più cristiani tranquilli».

«Chi crede non è un borghese» di Jean de Saint-Cheron, è stato elogiato sia da «Le Monde» che da «Le Figaro», e in Francia sta facendo molto discutere. Trentasette anni, studi a Sciences Po e alla Sorbona, l’autore scrive regolarmente su «La Croix». Può sembrare strano ma bisogna sempre tornarci, in Francia, quando si vuole capire qualcosa del rapporto tra la Chiesa e il mondo di oggi.

«La grande stagione letteraria della narrativa cristiana francese del ‘900 - precisa giustamente nella Prefazione Roberto Righetto -, che dovette fare i conti con il culto positivista della scienza e l’idolatria crescente del denaro e dello sviluppo economico, è probabilmente irripetibile. Sia perché maturò quando il cristianesimo era ancora molto radicato nella società europea, sia perché l’esplosione di così tanti talenti in pochi decenni – da Bloy a Péguy, da Bernanos a Mauriac, da Claudel a Julien Green – è un fatto davvero insolito».

Oggi i tempi sono molto cambiati, eppure - dice Righetto - «resta intatta la profezia di un autore come Léon Bloy. Nei suoi furori spesso paradossali si scagliò contro un’intera civiltà, quella borghese, di cui mise a nudo vizi e difetti».

Nel suo pamphlet, tornando (finalmente!) a dialogare a 360 gradi con la cultura, appoggiandosi a Blaise Pascal, Flannery O’Connor, Gilbert K. Chesterton, ma facendo i conti anche con Nietzsche e con Michel Houellebecq, De Saint-Cheron rivendica per il cristianesimo la qualifica di «vero realismo», capace di proporre un orizzonte serio di vita.

Non usa mezze parole con chi ignora ormai completamente l’esperienza cristiana, ma neppure con gli «interni»: «Che senso ha, nel XXI secolo, appartenere alla Chiesa se lo facciamo solo in cerca di una famigliola accogliente o per appartenenza, per ostinazione? A che serve appartenere a quella Chiesa se non vogliamo essere cristiani? E la cosa peggiore, la più intollerabile, è la finta umiltà con cui quei dimissionari dalla santità (cioè i dimissionari dal cristianesimo) affermano: “Non sono un santo”. Certo, è così. Ma queste parole, che dovrebbero contenere l’ardente desiderio di diventarlo, molto spesso sono invece il lamento ipocrita, tiepido e fiacco di quella nostra depressione, tutta moderna, che preferisce la tristezza alla lotta, la mediocrità al coraggio, l’imborghesimento allo slancio magnanimo del cavaliere errante». Ecco, De Saint-Cheron, qui, cerca di fare un po’ di luce sulla strada opposta. Forse è tempo.

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