«Mettiamo insieme talenti e capitali perché l’Italia non cresce da 20 anni»

IL LIBRO. Curato da Stefano Paleari e Francesco Brioschi una serie di idee per rendere il Paese attrattivo. La fuga dei cervelli: 94mila nel 2021. La ricchezza degli italiani nei paradisi fiscali vale 197 miliardi di euro.

Le opportunità per le risorse umane e quelle finanziarie sono le due facce della stessa medaglia e il loro percorso in simbiosi è la condizione perché l’Italia ritrovi quello sviluppo che, negli ultimi 20 anni, s’è interrotto in termini assoluti e relativi. Insomma, un cambio di fase. Ecco il nucleo concettuale sintetizzato dal titolo del libro «Talenti e capitali: simul stabunt, simul cadent», curato da Stefano Paleari e Francesco Brioschi (che è anche l’editore), con il contributo di 10 articoli firmati da studiosi e operatori economici. La chiave di lettura – ci spiega il professor Paleari, docente di Public management all’Università di Bergamo, di cui è stato rettore, e consigliere della ministra Anna Maria Bernini – è proprio questa: talenti e capitali stanno insieme e se cade uno, prima o poi cade pure l’altro.

«Le due questioni – chiarisce – non possono più essere affrontate separatamente. I prossimi anni saranno di profondo riequilibrio geopolitico e quindi anche l’Italia nella cornice europea deve chiedersi che ruolo svolgere. Sullo sfondo di questo obiettivo la parola che riassume tutto è: attrattività, un patrimonio oggi assente. Il libro intende mostrare come appunto l’attrattività sia un tema unico, l’insieme di politiche finalizzate a catturare i due grandi combustibili dello sviluppo: talenti e capitali. Parto dai talenti, perché prima vengono le persone e poi i capitali».

È la realtà dei numeri, tra fuga dei cervelli e dei capitali, a suggerire questa impostazione. Più di 94mila italiani hanno lasciato il Paese nel 2021 (+38% rispetto al 2011): uno su 3 (circa 31 mila) ha tra i 25 e i 34 anni. Di questi, quasi la metà (oltre 14mila) ha una laurea o un titolo superiore alla stessa laurea. Nel mentre l’integrazione di basso profilo degli immigrati, sia come qualifica sia come retribuzione, inizia a mostrare tutti i suoi limiti. La ricchezza degli italiani nei paradisi fiscali vale 197 miliardi di euro (10,6% del Pil), in gran parte attività finanziarie cresciute vertiginosamente a partire dal 2016. La perdita economica di cittadini, formatisi in prevalenza con risorse pubbliche, è crescente e molto rilevante, osserva Paleari: «Siamo un Paese che vede nell’immigrazione un “tappa buchi” e non una risorsa, mentre la denatalità produce una perdita di talenti potenziali: meno 30% dal 2008. Benché i tassi di risparmio restino consistenti, gli investimenti sono orientati verso il debito pubblico (900 miliardi tra banche e assicurazioni e 300 miliardi direttamente) e i flussi verso le imprese sono prevalentemente di origine bancaria. Se da un lato l’investimento dei risparmiatori è polarizzato verso l’immobiliare, i mercati finanziari sono molto ridotti rispetto al Pil e si assiste addirittura alla migrazione di imprese italiane verso altri listini».

Fra i paradossi segnalati dal libro, c’è anche questo: il secondo sistema industriale per dimensione in Europa genera sì un buon avanzo commerciale, ma non un sistema di retribuzioni pari a quello dei concorrenti. In sostanza: l’Italia paga meno i suoi talenti e non è solo una questione di cuneo fiscale (più alto della media Ue ma non di Germania e Francia). Paleari indica una serie di proposte.

Per ridurre la perdita dei cervelli, gli incentivi attuali (solo fiscali) sono insufficienti se non controproducenti. Bisogna migliorare le condizioni di lavoro e il trattamento economico dei giovani. Va difesa la qualità del sistema formativo e occorre trattenere i talenti e attrarne. Non si possono liberare risorse se non si affronta il macigno del debito pubblico e la spesa previdenziale. Il debito pubblico non è destinato a ridursi almeno fino all’assorbimento dello squilibrio demografico (pochi giovani e tanti baby boomers verso la pensione), ma piani volontari di pensionamento graduale possono contribuire a tenere elevati i tassi d’occupazione e riequilibrare i conti previdenziali: «Occorrono iniziative nuove rispetto a quelle fatte negli ultimi 20 anni. Il tema previdenziale è centrale, da correggere con gradualità e non come una lotta tra fazioni opposte. L’agenda degli investimenti strategici va affrontata con un partenariato pubblico-privato: lo Stato ha bisogno di un alleato, così come il privato ha bisogno della sponda pubblica. Questa integrazione serve a smobilizzare l’investimento privato abbandonando l’idea che il capitale pubblico non debba avere un ritorno finanziario. Riqualificare la spesa pubblica non ha nulla a che vedere con l’austerity. È necessaria invece per recuperare il 2% del Pil tra maggiori entrate (deduzioni e detrazioni) e minori uscite (platee enormi di beneficiari e di esenti pongono più di un dubbio sulla reale necessità). In questo modo sarà possibile destinare quote di spesa su sanità e formazione». La parola d’ordine di Paleari è: mettere a fattore comune cose che nei decenni passati sono rimaste separate.

«Questo comporta – conclude – un ridisegno degli equilibri politici intorno a una domanda: che tipo di società immaginiamo nei prossimi 10 anni? Disgregata, dove la politica rispecchia la frammentazione della società, oppure la vogliamo costruita attorno ad obiettivi comuni? Tale orizzonte ha però bisogno di istituzioni dotate di un minimo comun denominatore. Il mio non è cerchiobottismo, piuttosto la constatazione che il muro contro muro non ha funzionato, perché l’Italia non cresce da 20 anni».

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