In fuga dall’esercito talebano, il viaggio di Hassan per la vita

LA STORIA. Il 27enne scappò nel 2015 dal confine con l’Afghanistan: 5mila km a piedi e in bus. «Non volevo combattere una guerra ingiusta». Lavora da McDonald’s.

Ha detto «no» a una guerra ingiusta e se n’è andato. Con in spalla solo uno zainetto ha percorso, un po’ in autobus, ma soprattutto a piedi, circa 5mila chilometri per darsi la possibilità di una vita dove il futuro può sceglierselo senza che gli venga imposto da nessuno. Hassan Turi, 27 anni, di Ponte San Pietro e origini pakistane, quando ha lasciato il proprio Paese di anni ne aveva solo 18: «Una volta diventato maggiorenne – racconta – mi sarei dovuto arruolare nell’esercito talebano. E io non volevo combattere una guerra ingiusta».

Niente documenti. Due paia di pantaloni, due maglie e pochi spiccioli, giusto per qualche spostamento in autobus, Hassan nel 2014 parte dalla sua città, Parachinar, al confine tra Pakistan e Afghanistan, lasciando mamma, papà, sorella maggiore e fratello minore, con l’intenzione di trasferirsi in Iran: «Sono rimasto tre giorni – continua Hassan, che oggi lavora al McDonald’s di Ambivere –. Non era possibile ottenere il permesso di soggiorno e ho raggiunto la Turchia, Instanbul. Ma anche lì niente e decido di spostarmi in Bulgaria». Più facile a dirsi che a farsi, perché per riuscire a superare il confine senza essere rispediti indietro ci sono volute ben tre settimane, durante le quali ha conosciuto altri tre ragazzi che volevano fare la stessa cosa. Insieme ci hanno provato e riprovato per 5 volte: «Non è stato facile raggirare i controlli. Una volta, per fermarci, mi hanno fatto anche inseguire e mordere da un cane. Ma poi un giorno, dopo 28 ore di cammino, siamo riusciti a raggiungere Sofia».

Dalla Germania a Gorizia

Dove restano per soli due giorni, prima di prendere la via per la Germania. E lì, dopo quattro mesi di viaggio, può cominciare la sua seconda vita: «È stato difficile. Non avevo da mangiare e un posto dove dormire. Mi sono affidato alla solidarietà della gente. Qualcuno mi offriva del cibo oppure mi mettevo in coda per i pasti caldi degli enti preposti. Dormivo nei boschi e sotto i ponti. Era inverno e per proteggermi dal freddo, mi rifugiavo sotto sacchi di plastica. Ogni tanto mi facevo prestare il telefono per chiamare casa e rassicurare la mia famiglia. Ma non potevo tornare indietro. Non ho mai pensato di mollare».

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