«Io, sequestrato 33 giorni
Ma il Covid è stato peggio»

La storia dell’imprenditore di Brembate, Francesco Doneda, 85 anni. Nel 1979 il rapimento. «Il virus però mi ha fatto vedere quasi la fine».

«Pur nella drammaticità delle fasi del rapimento e delle lunghe ore trascorse ammanettato in un bugigattolo, chissà dove, ho sinceramente temuto maggiormente per la mia vita in questi giorni». Lo afferma senza esitazioni Francesco Doneda, 85 anni, imprenditore di Brembate colpito da coronavirus una ventina di giorni fa ma che ha avuto la fortuna, come 41 anni or sono, di uscire dal tunnel. Partiamo da lontano, dall’inoltrato pomeriggio del 21 maggio del 1979 in cui avvenne il sequestro.

Quel pomeriggio avrebbe dovuto lasciare l’allora Calcestruzzi Orobica (attuale Nuova Demi) di cui era responsabile, e raggiungere la cava operativa da oltre 60 anni a Brembate. Avrebbe dovuto unirsi ai fratelli, ai nipoti, a parenti, nella recita del rosario nella speciale struttura realizzata nel luogo di lavoro. Tradizione che la famiglia Doneda porta avanti da anni nella circostanza del mese di maggio, mese dedicato alla Madonna. Non ebbe il tempo nemmeno di uscire dall’ufficio che si è vide braccare da persone che senza mezzi termini manifestarono, armi alla mano, le loro intenzioni. Quello, insomma, era un sequestro. La prigionia si protrasse per 33 giorni, potè rivedere la luce il 24 giugno, dopo 33 giorni.

«Indubbiamente furono giorni difficili, dormivo su una branda, gamba e braccio legati. La persona che mi accudiva e che provvedeva al cibo, aveva una coperta in testa con impressi due buchi all’altezza degli occhi. Ho persino temuto che mi uccidessero, non facevano di certo complimenti. Trentatré giorni di angoscia, in solitudine, interrotta nel momento in cui quanti mi tenevano in ostaggio volevano saperne di più dell’azienda. Ma il coronavirus devo dire che è stato peggiore». Cioè? «Qualche acciacco l’ho avuto ma sostanzialmente sono sempre stato in buona salute tant’è la mia presenza a Zanica era continua. Prima del ricovero seguivo attraverso giornali e televisione l’evolversi della situazione. Mi sono rimaste impresse quelle bare allineate, il trasporto per la cremazione, senza che gli stretti parenti potessero abbracciarli per l’ultima volta. Mi auguravo di non trovarmi in quella drammatica situazione». Invece. «È iniziato tutto una sera, al rientro dal lavoro. Prima la mancanza di fiato, tosse, a cui ha fatto seguito la polmonite: non avevo dubbi erano sintomi di Covid-19». Non hanno certamente bisogno di consulto la moglie Bruna, i figli Sara, Giordano e Daniela che provvedono all’immediato ricovero all’Ospedale Papa Giovanni XXIII a Bergamo. «È stato traumatico - continua Francesco - momenti difficili da dimenticare: il continuo quanto sollecito andirivieni di medici, infermieri, la provvisoria sistemazione su un lettino in corsia dov’erano già allineati, altri pazienti. Ho temuto soprattutto per la mancanza di fiato, nemmeno avevo la forza di alzare le braccia, una spossatezza incredibile tanto da indurmi a pensare che, stavolta… era proprio finita. Il prodigarsi dei medici mi ha consentito di migliorare».

Il decorso sanitario è continuato all’istituto Palazzolo. «È stata comunque dura, mi sono reso conto di come la vita possa volarti via, attraverso sofferenze difficilmente dimenticabili. Il sacrificio, la premurosa e professionale vicinanze dei medici, dei loro collaboratori, è stata straordinaria». Dove ha trovato tanta forza? «Con la preghiera, pensando ai miei cari, ricordando i genitori. Gli stessi riferimenti nei giorni della prigionia. Aggiungo un ultimo dettaglio se mi è consentito ed è relativo all’ Atalanta che seguo da sempre. è stato moralmente gratificante il video messaggio postato da Papu Gomez, Palomino, Zapata, De Roon i quali mi hanno invitato, come spronava il mio amico, grande indimenticabile Felice Gimondi, a “molà mia”».

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