Il trapianto, la montagna e l’amore: «Per salvarci dobbiamo fare squadra»

LA VITA CHE RICOMINCIA. Marco e la lotta contro la malattia. Con a fianco Silvia e un gruppo speciale di escursionisti.

«È Natale ogni mattino che vivi – scrive Stefano Benni – scarta con cura il pacco dei giorni. Ringrazia, ricambia, sorridi». Il 23 dicembre ricorre l’ottavo anniversario del trapianto di midollo di Marco Picenni, 46 anni, di Curno: «Da allora ho avuto tante occasioni per essere grato alla vita e alle persone che ho accanto. Quel grande dono è stato il primo di una serie di atti di generosità che mi hanno salvato».

Sportivo, abituato alla fatica, Marco faceva il fabbro e nell’estate del 2015 era in vacanza in Alsazia con la compagna Silvia Nava quando si sono manifestati i primi sintomi di malattia: «Andavo in piscina, camminavo, ero abituato a sforzi intensi, perciò di fronte a qualche dolore non mi sono preoccupato, l’ho attribuito a diversi fattori, come la stanchezza, la guida, il viaggio, lo sport». Al rientro, però, ha continuato a sentirsi spossato, e gli capitava di avere qualche linea di febbre la sera: «Fino a quel momento non avevo mai avuto problemi seri di salute e non immaginavo che potesse trattarsi di qualcosa di grave. Dato che i sintomi non regredivano, però, a un certo punto mi sono preoccupato. Una sera di agosto siamo andati al Pronto soccorso. I medici mi hanno consigliato di rivolgermi alla Reumatologia ma dalle prime visite non è emerso niente. Così mi hanno prescritto alcune analisi del sangue».

Silvia e Marco si scambiano uno sguardo. Sono una squadra, uno finisce le frasi dell’altro, e ricordare quelle giornate solleva in entrambi un’ondata di emozioni: «Un venerdì mattina di ottobre – dice Marco – sono andato in ospedale per il prelievo, e il pomeriggio stesso mi hanno convocato in Ematologia. Eravamo spaventati, abbiamo chiamato il medico di base che ci ha accennato a una presenza anomala di blasti, cellule immature e indifferenziate».

Si sono presentati all’appuntamento pieni di apprensione: «Dopo un prelievo del midollo osseo – ricorda Marco – mi hanno diagnosticato una mielodisplasia ad alto rischio, spiegandomi che in breve tempo avrebbe potuto diventare leucemia. Non c’era molto tempo e l’unica terapia possibile era il trapianto di midollo». Si è messo in moto il processo di ricerca del donatore, a partire dai famigliari: «Dopo aver eseguito la tipizzazione – aggiunge Silvia – si è scoperto che il fratello di Marco era compatibile. Un colpo di fortuna, dato che fra consanguinei la probabilità che questo si verifichi è del 25%. Così tutto è andato avanti rapidamente, ed è arrivato il momento del trapianto».

Marco ha affrontato le terapie necessarie in buone condizioni fisiche: «Ho lavorato fino al momento di entrare in ospedale. Per resettare il sistema immunitario e prepararlo a ricevere il nuovo midollo ho subìto una serie di chemioterapie. Il ricovero è durato circa un mese e il 12 gennaio mi hanno dimesso».

Gli ostacoli verso la guarigione

Ci sono stati momenti di paura, smarrimento, fatica: «Marco – sottolinea Silvia – ha sempre reagito con spirito positivo, senza mai lasciarsi andare. Era consapevole delle fasi da attraversare». Quando parlano di quei momenti dicono sempre «noi», come se la malattia fosse di entrambi: «Silvia non mi ha mai lasciato solo – osserva Marco –. Ci siamo impegnati insieme a raccogliere informazioni sulla cura e le possibili complicazioni. Il reparto di Ematologia dell’ospedale “Papa Giovanni XXIII” di Bergamo ci ha dato un sostegno straordinario».

Subito dopo le dimissioni le condizioni di Marco sono migliorate: «Ho ricominciato a uscire, seppure con prudenza, perché come immunodepresso dovevo stare attento a non incorrere in qualche infezione». I primi due controlli del midollo, eseguiti 30 e 60 giorni dopo il trapianto, hanno dato esito positivo: «Al terzo purtroppo i valori non erano più quelli desiderati. Mi hanno curato con delle infusioni di linfociti, ma a quel punto si è manifestata una forte reazione di rigetto che ha interessato diversi organi. Sono stato ricoverato di nuovo in ospedale e ci sono rimasto per un mese. Davvero un brutto momento».

Gli specialisti a quel punto avevano poche armi a disposizione: «L’unica possibilità – prosegue Silvia – era una terapia sperimentale a base di cellule mesenchimali stromali prese dal cordone ombelicale dei bambini, quindi una nuova donazione. Abbiamo scelto di intraprendere questa strada e l’esito è stato positivo: questo trattamento è riuscito a riparare i danni provocati dal rigetto». Marco ha dovuto continuare a respingere gli attacchi della Gvhd (Graft versus host disease), la malattia del trapianto contro l’ospite: «Nel 2016 ha attaccato i polmoni, ma i medici sono riusciti a rimediare con nuove cure. Poi ho avuto diverse pericarditi e per evitare recidive i medici hanno usato dosi massicce di immunoglobuline, ricorrendo così a un terzo tipo di donazione».

Pian piano le condizioni di Marco si sono stabilizzate: «Ho ricominciato le mie attività sportive e ho ripreso a lavorare. La mia azienda mi ha sostenuto e aiutato durante il decorso della malattia e al rientro mi ha permesso di cambiare mansione, assegnandomi un lavoro d’ufficio». La pandemia ha provocato un nuovo dissesto: «Durante la prima ondata – spiega Silvia – abbiamo sofferto molto. Continuavano a passare le ambulanze, due vicine di casa sono morte. Eravamo bloccati in casa, ma il Comune, il quartiere e gli Alpini ci hanno aiutato moltissimo, portandoci a domicilio ciò che ci serviva».

Una rinascita ad alta quota

Per Silvia e Marco il Covid è ancora una minaccia: «D’inverno usciamo poco, non frequentiamo locali e ristoranti. Forse sembrano atteggiamenti estremi ma il rischio per la salute di Marco è elevatissimo». La rinascita è passata anche dall’incontro con il gruppo «A spasso con Luisa», che promuove attività di passeggiate in montagna per trapiantati e caregiver, organizzando itinerari accessibili a tutti. «Ne abbiamo scoperto l’esistenza per caso – ricorda Marco –, attraverso un volantino. Per iniziare l’attività ho dovuto affrontare una visita medico-sportiva».

Il progetto nasce all’interno del protocollo di ricerca «Trapianto e adesso sport», promosso dal ministero della Salute e dal Centro nazionale trapianti, con l’Istituto superiore di sanità e con le associazioni dei pazienti trapiantati, con il Centro di Medicina dello sport del «Papa Giovanni XXIII» identificato come centro di riferimento per la Regione Lombardia. È intitolato alla memoria di Luisa Savoldelli, trapiantata di fegato e grande appassionata di montagna. La prima tappa è sempre il rifugio «Parafulmine», sopra Gandino, e poi la difficoltà aumenta gradualmente fino alla sfida finale, una gita di due giorni «ma per noi – sorride Marco – è ancora un’impresa troppo ardua».

Da quando hanno iniziato questa avventura Silvia e Marco hanno scoperto un mondo nuovo: «Non vediamo l’ora che arrivi quel periodo dell’anno – osserva Silvia –. Trapiantati e caregiver grazie a queste attività acquistano fiducia e speranza. Ogni rifugio diventa una conquista che dà più sicurezza e gioia. Tra i partecipanti sono nate belle amicizie. Ci sono persone che hanno subìto il trapianto a Bergamo ma vivono altrove. Tornano perché hanno mantenuto un legame con l’ospedale che gli ha offerto una seconda vita, i luoghi e le persone che hanno incontrato».

Partecipare alle gite è un’occasione per conoscersi e aiutarsi a vicenda: «È stimolante vedere la voglia di vivere di queste persone – dice Silvia –. Hanno una forza incredibile e offrono insegnamenti di vita così profondi che è difficile esprimerli a parole. Anche per questo per noi fare parte di questo gruppo è così prezioso. Avere qualcuno con cui condividere la nostra esperienza ci aiuta a non sentirci soli».

Ora camminano in montagna anche al di fuori delle attività del gruppo: «Scegliamo itinerari commisurati alle nostre possibilità – sottolinea Marco –, senza cimentarci in imprese estreme. La prima vera e propria cima che ho raggiunto è stata quella del Pizzo Formico. Il panorama da lassù è incredibile. Vedere più in là è come pensare al futuro e recuperare un orizzonte più ampio dopo che la malattia ci ha costretti a concentrarci sul presente». Anche i viaggi sono diventati più radi e brevi: «Siamo andati all’estero meno frequentemente, e ci spostiamo con maggiore attenzione, informandoci sui presìdi sanitari e portando la valigia con i medicinali».

Fare i conti con la fragilità è stata una scuola di vita: «Non so come avremmo fatto senza le donazioni che hanno aiutato Marco a curarsi – commenta Silvia –. Iscriversi al registro dei donatori di midollo è un gesto che non costa nulla. Basta rivolgersi all’Admo per ottenere tutte le informazioni (www.admo.it). Anch’io ho fatto la tipizzazione quando abbiamo scoperto la malattia di Marco e spero un giorno di poter ricambiare il gesto che abbiamo ricevuto. Molti sono ancora convinti che la donazione di midollo comporti dei rischi, ma non è così. Il prelievo avviene nella maggior parte dei casi per aferesi, simile a una donazione di plasma, e poi il midollo si rigenera. La compatibilità è di uno per ogni 100mila persone, ogni iscrizione aumenta le possibilità di salvare una vita».

Silvia e Marco hanno scoperto il valore della solidarietà e dei legami di comunità: «Abbiamo un debito di gratitudine con persone e associazioni che ci hanno aiutato anche dal punto di vista burocratico, come l’Ail (Associazione italiana contro leucemie, linfomi e mieloma). Ci siamo aperti al mondo per necessità e questo ha suscitato in noi il desiderio di aiutare altri che affrontano le stesse difficoltà. Fra di noi abbiamo fatto squadra, era ciò che dovevamo fare». E Silvia ricorda una frase che il cardinale Carlo Maria Martini ha rielaborato da Dostoevskij: «La bellezza che salverà il mondo è l’amore che condivide il dolore».

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