Un soffio di vita per aiutare a sperare: «Ognuno può essere dono per il mondo»

OLTRE LA MALATTIA. Emanuela, dopo il tumore e le cure, ha fatto nascere l’associazione «Il soffione rosa».

Se la vita viene sconvolta da una tempesta, non è detto che alla fine resti solo dolore. Può accadere che il vento finisca per spargere semi di bene, come è stato per Emanuela Marenzi di Romano di Lombardia. Pensando a questi semi ha scelto di chiamare «Il soffione rosa» l’associazione che ha fondato dopo aver affrontato un cancro al seno, per aiutare la ricerca sui tumori femminili ed essere vicina ad altre donne come lei. Il soffione per Emanuela diventa simbolo del suo percorso di rinascita e di crescita personale, che ha portato una grande trasformazione in lei: «Mi trasmette un senso di leggerezza - scrive nel libro piccolo e prezioso in cui ha raccolto la sua storia - come se soffiare significhi consegnare al vento tutto ciò che accade dandogli un altro destino».

Il filo conduttore è la gratitudine: «Ogni giorno - racconta Emanuela - trascrivo su un quaderno i momenti più belli che ho vissuto, le cose anche piccole per cui devo ringraziare. Spesso non dedichiamo attenzione ai dettagli, ai gesti che fanno nascere meraviglia nelle persone. Sono tutte occasioni che perdiamo».

Emanuela è un’infermiera domiciliare: entra nelle case di persone fragili, che hanno bisogno di assistenza. La sua diagnosi è arrivata nell’autunno del 2020, nel pieno della seconda ondata della pandemia: «Quel periodo per me è stato faticoso. Uscivo di casa ogni mattina con la tuta di contenimento, che mi faceva sentire infagottata come un marshmallow. La mettevo e la toglievo in garage per non spaventare i vicini e usavo la mia auto, che poi dovevo sanificare. Mi sono occupata di pazienti che decidevano di non recarsi al pronto soccorso, ma erano tutti positivi, e sono deceduti a casa. Li abbiamo accompagnati nei loro ultimi giorni».

Durante la pandemia è stato intenso il ricorso alle cure domiciliari: «Ci chiamavano in continuazione, avevo un contratto di sei ore al giorno ma lavoravo anche il doppio, per tre mesi è stato così, con un elevato stress emotivo e fisico».

Anche suo marito Gregorio era coinvolto nell’emergenza sanitaria: «Lui lavora nell’edilizia ma fa anche il volontario sull’ambulanza, perciò in quel periodo trasportava pazienti in fin di vita negli ospedali. Eravamo entrambi impegnati fuori casa per tutto il giorno. Uscivamo all’alba e tornavamo la sera. I nostri figli gemelli Aurora e Gabriele avevano 17 anni e sono stati gli unici fra i loro compagni di scuola a rimanere a casa da soli, senza i genitori. Al rientro non avevamo più nemmeno la forza di parlare: ci guardavamo, e bastava questo per capirci, le parole non servivano. Cercavamo di preservare i nostri figli da quello che stava accadendo. Mio marito era in ambulanza sull’autostrada quando ha visto passare i carri dell’esercito che portavano via le salme».

Quando questo periodo oscuro è terminato, Emanuela ha preso appuntamento per lo screening mammografico: «Sono un’infermiera, perciò sono consapevole di quanto sia importante la prevenzione. Non ho mai saltato un controllo, e in questo caso se me ne fossi dimenticata il mio destino avrebbe potuto essere molto diverso». Il risultato dell’esame è stato subito chiaro: «C’era un nodulo che aveva l’aspetto caratteristico del carcinoma. Da lì è partito il mio percorso di cura, che inizialmente prevedeva l’intervento di quadrantectomia e la terapia ormonale». Non è stato facile accettare la malattia: «Il tumore era davvero piccolo, al tatto non si sentiva, senza la mammografia non me ne sarei accorta, e io stavo bene. Al momento dell’esame, appena tornata da una vacanza con la mia famiglia, ero tranquilla, felice e mi è crollato il mondo addosso. Guardandomi allo specchio mi chiedevo come fosse possibile, mi sembrava di vivere la vita di qualcun altro».

Emanuela ha deciso di sottoporsi a un particolare esame, che misura l’aggressività del tumore: «Si chiama onco-type test e viene eseguito in America. Grazie ad esso si può prevedere con maggiore precisione la possibilità di recidiva. Nel mio caso era del 30 per cento e per farla scendere al 5 per cento ho deciso di affrontare il classico percorso di chemioterapia con funzione preventiva». Dopo la diagnosi ha messo in stand-by la sua vita professionale e ha riacceso quella personale, trovando nuove motivazioni: «Bisogna accettare che comunque a un certo punto la vita finisce, considero questa consapevolezza come una luce per me e per la mia vita, mi ha aiutato a capire che ogni giorno è un dono prezioso».

L’impatto della chemioterapia è stato molto forte per Emanuela: «Mi guardavo allo specchio e non mi riconoscevo. Mi è pesato perdere i capelli, perché è un segno evidente di malattia. Fra l’altro ti porta ad avere una socialità completamente diversa. Non ho indossato la classica cuffia da chemioterapia, perché mi suscitava sentimenti e pensieri negativi. La parrucca non me la sono mai vista addosso, era difficile accettare di indossare qualcosa di “artificiale” al posto dei miei capelli. Mi sono attrezzata con bandane e cappellini, e fra l’altro in quel periodo a causa della pandemia non c’erano molte occasioni per uscire. Questo ha reso tutto più semplice. Per mantenere i contatti con gli amici ho trascorso molto tempo al telefono».

Subito dopo la diagnosi Emanuela ha deciso di rivolgersi a uno psicoterapeuta: «Sono molto felice di questa scelta e se tornassi indietro la rifarei. Mi ha aiutato a dare senso a ciò che stava accadendo e mi ha restituito la speranza, mostrandomi la situazione da un altro punto di vista. Quando mi sono presentata nel suo studio ero impaurita, triste e depressa. Il sentimento più potente e disturbante era la paura di morire, che ho riscontrato negli anni anche in molti miei pazienti, indipendentemente dalla capacità di ammetterlo. Non è facile accettare che tutti i miei progetti stavano andando in fumo. Prima mi veniva spontaneo ragionare a lungo termine: quando andrò in pensione - dicevo - mi dedicherò alle mie passioni, l’anno prossimo farò un viaggio. Ora ho imparato a non progettare più nulla con un termine superiore a tre mesi. Cerco di non rimandare, penso che il modo migliore per vivere sia evitare di crearsi troppe aspettative per il futuro».

Emanuela ha imparato anche a gestire in modo diverso le relazioni interpersonali: «Ho perdonato me stessa e gli altri, ho risolto rapporti e situazioni che avevo lasciato in sospeso. Ho chiesto scusa anche nei casi in cui non ero colpevole, perché l’ho trovato liberatorio, e probabilmente per gli altri è stato spiazzante. Questo atteggiamento mi ha aperto un nuovo orizzonte e mi ha aiutato a stare meglio con me stessa. Quando si vive nell’oscurità, non si può diventare luce per gli altri. Ognuno può essere un dono per il mondo, lasciare un segno positivo facendo qualcosa di buono per il prossimo e non solo per se stessi. Per riuscirci bisogna lasciare da parte la rabbia e l’orgoglio e tanti altri fastidiosi fardelli». Così Emanuela ha iniziato a considerare la sua condizione in un altro modo: «Può sembrare un paradosso, ma per me la malattia è diventata un’opportunità, mi ha insegnato moltissimo».

Già prima della diagnosi si era accorta che c’era bisogno di un genere diverso di assistenza per i pazienti: «Durante il periodo della pandemia, poi, si è accentuato il senso di solitudine. Quando sono stata operata nessuno poteva venire a trovarmi, ho dovuto affrontare la sofferenza da sola. Cercavo di farmi forza e di non mostrarmi dolorante per non accentuare le preoccupazioni dei miei familiari. Ho sempre pensato molto agli altri e poco a me stessa. Ero ricoverata all’Humanitas Gavazzeni e in quei giorni a sostenermi sono stati lo skyline di Città Alta, che vedevo dalla finestra, e una compagna di stanza disponibile e attenta».

Emanuela si è accorta che nel territorio di Romano di Lombardia non esistono molte associazioni dedicate in modo specifico ai tumori femminili: «Abbiamo pensato così con altre donne di fondare un gruppo, che si dedicasse alla raccolta fondi per la ricerca e per acquistare macchinari da offrire alle aziende ospedaliere». L’associazione «Il soffione rosa», nata due anni fa, è già riuscita a donare all’ospedale di Treviglio uno speciale casco, che permette di ridurre la perdita dei capelli alle donne che affrontano la chemioterapia, e che in provincia di Bergamo non esisteva: «Chi desiderava usufruire di questo particolare trattamento prima doveva spostarsi a Brescia o a Milano. Siamo molto contente ora di sapere che ci sono donne che lo usano all’ospedale di Treviglio ottenendo ottimi risultati. Per me sarebbe stato davvero importante evitare la perdita dei capelli, mi avrebbe aiutato ad affrontare le terapie con un altro spirito». L’Associazione ha donato inoltre all’Istituto dei Tumori di Milano la somma necessaria per attivare una borsa di studio per un ricercatore, che si occuperà di tumori femminili.

Nell’attività dell’associazione Emanuela cerca di valorizzare gli aspetti positivi di ciò che le è accaduto: «Ho perso 15 chili, capelli, ciglia e sopracciglia ma ho acquisito molto altro in termini di consapevolezza e di stile di vita, e cerco di condividere questa esperienza con altre donne che attraversano le stesse fatiche. L’associazione fa anche questo, promuove abitudini corrette e più sane, contando sulla collaborazione di nutrizionisti, organizzando per esempio corsi di yoga». Dopo due anni la partecipazione è cresciuta: «I soci fondatori sono nove, poi ci sono una quindicina di volontari fissi e una cinquantina di sostenitori. Alla fine dell’anno il Comune di Romano di Lombardia ci ha assegnato la benemerenza per l’impegno sociale. Questo riconoscimento ci ha emozionato, è stato un regalo inatteso. Grazie a questa attività sono riuscita a dare un senso alla mia malattia».

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