In bicicletta con i «Parkinsonauti»
790 chilometri benedetti dal Papa

Marco Anesa. L’avventura lungo la via Francigena da Pavia a Roma dopo aver scoperto la malattia.

Dieci «Parkinsonauti», 790 chilometri in bicicletta da Pavia a Roma lungo la via Francigena: fatica, sudore, salite, sterrati, discese, l’arrivo in Piazza San Pietro e un incontro inaspettato, intensissimo con Papa Francesco. La «Bike riding for Parkinson’s Italy 2020», promossa dall’associazione Parkinson & Sport è stata una grande avventura, «un’esperienza indimenticabile» come racconta Marco Anesa, 60 anni, di Leffe, uno di questi straordinari viaggiatori, una sfida vinta per provare a se stessi e al mondo che la malattia «non è la fine», si può resistere, e lo sport in questa battaglia quotidiana è un grande alleato.

La diagnosi due anni fa

«Ho avuto la diagnosi di Parkinson due anni fa – racconta Marco –. Avevo un lieve tremore alla mano, ma i medici non riuscivano a identificarne la causa, perché le risonanze magnetiche davano esito negativo. Poi però ho subìto un intervento alla spalla in anestesia generale. Quando mi sono svegliato il Parkinson si è manifestato in modo estremo. Mi sentivo perso, con la testa fra le nuvole». Sembravano i segni di una depressione, perciò Marco si è rivolto anche a una psicologa: «Poi però ho consultato un altro neurologo, che ha capito subito quale fosse il problema, anche se me lo ha detto solo dopo la conferma di nuove analisi. All’inizio è stata dura, mi sentivo molto disorientato, ma dopo questa impresa in bicicletta mi sento pieno di nuova energia».

Marco ha sempre amato la bicicletta: «Ci andavo anche vent’anni fa, ho partecipato a molte gare di Mountain bike a livello dilettantistico, come quelle dell’Orobie Cup poi, però ho smesso. La passione mi è rimasta e ho continuato ad allenarmi, anche se con minore intensità».

L’incontro grazie alla figlia

Appassionato al suo lavoro di elettricista, è andato in pensione qualche mese fa, dopo 43 anni di attività, ma continua come consulente: «Mi sono sempre occupato di impianti industriali. Ora faccio il supervisore, in questo periodo ho un incarico a Milano».

Marco ha conosciuto Stefano Ghidotti grazie alla figlia Paola, di professione geometra, mamma del piccolo Mattia, il suo primo nipote, di un anno e mezzo: «Lei lo ha rintracciato su Facebook, ha scoperto l’attività dell’associazione Parkinson & Sport e mi ha suggerito di contattarlo. L’ho incontrato per la prima volta alla presentazione del libro “Non chiamatemi morbo” (Contrasto), con le storie di tanti parkinsoniani come me, tra le quali c’era anche la sua, ma non ho avuto il coraggio di avvicinarmi e di parlargli. Dopo, però ho continuato a coltivare il desiderio di partecipare alle iniziative sportive che organizzava. Mia figlia Paola mi ha parlato di questo viaggio in bicicletta fino a Roma. Mi è sembrata una sfida ambiziosa e proprio per questo attraente, e ho trovato interessante che partecipassero altri ciclisti con il Parkinson, proprio come me».

La bicicletta di Marco è sempre in movimento: «Uscivo per fare un giro tre o quattro volte alla settimana, ma dopo aver deciso di unirmi a questa spedizione ho incominciato ad allenarmi in modo più sistematico». Come scrive Davide Cassani: «La bicicletta è bella per quello che ti può dare. Ti fa stare bene, ti dà la possibilità di sentire, di parlare, di vedere il mondo da un’altra angolazione. La bicicletta ti fa tornare indietro nel tempo. Ti fa tornare ragazzo». Ed è proprio questo l’effetto che produce su Marco. Seduto su una panchina accanto a Mattia, suo nipote, addormentato sul suo passeggino, sorride e il suo viso si illumina mentre ripercorre la sua impresa: «La bicicletta aiuta la mente a liberarsi dai pensieri negativi e a rilassarsi. L’ho scoperto quando lavoravo a Milano e dovevo restare fuori per 12 ore al giorno. Quando avevo un po’ di tempo libero prendevo la bici e stavo subito meglio. Così ho capito che lo sport poteva essere un alleato prezioso contro il Parkinson. Non potevo mancare all’appuntamento dei Parkinsonauti. La partenza era fissata per il 5 settembre a Pavia. Ci siamo incontrati prima un paio di volte per conoscerci e per mettere a punto alcuni dettagli dell’organizzazione».

Il lungo tragitto

Le giornate erano intense e prevedevano due tappe di circa sessanta chilometri: «Partivamo al mattino verso le 8,30-9 dopo aver fatto colazione ma ci alzavamo presto per far asciugare gli indumenti che avevamo lavato la sera prima. Abbiamo portato solo due cambi, spesso al mattino erano ancora umidi e li ripassavamo con il phon. Ognuno di noi si è abituato a usare solo l’essenziale. Sapevamo di dover far fronte a qualche inconveniente in più rispetto ad atleti “normali”. Grazie ad alcuni sponsor avevamo le bici elettriche a pedalata assistita, perché altrimenti non avremmo potuto affrontare 12 mila metri di dislivello in 9 giorni. Ci accompagnava un furgone a nove posti dove tenevamo il gruppo elettrogeno per le e-bike, il pannello gonfiabile per l’arrivo e i pezzi di ricambio per le biciclette, poi c’era un camper che ci faceva da appoggio. Nel complesso ci arrangiavamo bene».

Il percorso era impegnativo: «Ogni giorno affrontavamo un dislivello di 1.500 metri. C’erano salite con una pendenza del 23-24%. Sono riuscito comunque a reggere quasi sempre questo ritmo. Dopo sette giorni ho dovuto fermarmi per mezza tappa, perché ero troppo stanco. Devo dire però che è capitato più o meno a tutti di doversi fermare almeno per un tratto del percorso. Nonostante questo è stato un viaggio bellissimo, l’organizzazione non ha sbagliato nulla».

Non è stato solo l’aspetto sportivo ma anche quello umano di questa spedizione a colpire profondamente Marco: «Mi ha meravigliato trovare negli altri Parkinsonauti gli stessi stati d’animo che provavo io. Stavamo bene insieme anche se alla partenza non ci conoscevamo ed eravamo dieci persone di provenienze ed età molto diverse. Ognuno ha il proprio carattere, non è facile andare d’accordo, ma Stefano Ghidotti è un vero leader, è un carro armato e ha saputo offrirci la direzione giusta».

Il momento più emozionante è stato sicuramente l’arrivo a Roma: «Ho visto il colonnato di Piazza San Pietro e mi è sembrato incredibile essere arrivati lì. Le guardie svizzere ci hanno fatto entrare in Vaticano con le nostre bici, abbiamo visto arrivare una macchina blu che si è fermata accanto a noi. Il cuore si è messo a battere all’impazzata quando è sceso il Papa e ci ha dedicato qualche minuto nel tragitto che lo portava alla sua dimora, a Santa Marta dopo l’Angelus, per salutarci e dedicare a ognuno di noi una parola gentile. È stato un momento che non scorderò mai più». Lungo il percorso ci sono stati anche tanti incontri con gli amministratori locali e con le associazioni: un modo per sensibilizzare le persone riguardo alle condizioni di chi deve convivere con il Parkinson, in particolare in giovane età, come molti atleti del nostro gruppo. «Non si potevano fare foto – continua Marco – perché dovevamo tenere le mani sulla bicicletta, ma abbiamo incontrato paesaggi meravigliosi, la Toscana in particolare, con le sue colline, che ci facevano continuamente salire e scendere. Siamo passati attraverso boschi e montagne e per lunghi tratti non incontravamo anima viva, siamo saliti sulle montagne ammirando la bellezza della natura e c’eravamo soltanto noi, con il nostro sudore e la nostra fatica, la nostra sfida con noi stessi e con la malattia. Ci siamo davvero divertiti».

L’«arma» segreta

L’arma segreta di Marco è stata la sua famiglia, che gli è stata sempre accanto e lo ha aiutato a passare i momenti più difficili. «Sono sposato da 32 anni con Daniela e ho due figlie, oltre a Paola anche Cristina, che lavora a Chioggia. L’arrivo del mio primo nipote mi ha dato una grande carica. È nato poco dopo che avevo scoperto la malattia. Diventare nonno mi ha reso molto felice, mi ha offerto nuovi stimoli per andare avanti. La mia famiglia mi ha offerto tutto il sostegno necessario a superare le difficoltà. Così sono riuscito a proseguire con coraggio per la mia strada. Ho letto diversi libri sul Parkinson, quindi ho deciso di seguire i consigli degli esperti e ho detto subito ai miei colleghi che avevo questa patologia. Mi hanno dimostrato solidarietà e vicinanza in modo davvero esemplare, quando ho avuto bisogno di supporto si sono fatti in quattro e non mi hanno mai fatto sentire a disagio per la mia fragilità. Non ho avuto problemi sul lavoro, certo inizialmente avevo paura di non poter più svolgere i compiti che avevo assolto per quarant’anni, fortunatamente è stato solo un pensiero, la mia esperienza e le mie capacità mi hanno permesso di metterlo da parte. Ora sto ristrutturando casa, così mi tengo impegnato: ne ho bisogno, sono fatto così. Durante la quarantena per il covid-19 nella primavera scorsa ho pulito e riordinato completamente il garage e la cantina, e ho costruito tanti giochi per mio nipote, come per esempio un carrellino con le ruote e un pannello sensoriale, ho trovato i tutorial per realizzarli su internet. Adesso è bellissimo guardarlo mentre ci gioca a casa nostra».

La prossima sfida

Marco ci ha preso gusto e ora non vede l’ora di ripartire: «Il prossimo itinerario dovrebbe essere da Torino a Venezia. Ci sarebbe piaciuto partecipare insieme anche alla “12 ore” di Monza, ma quest’anno la data coincideva con il nostro arrivo a Roma, quindi non è stato possibile. Abbiamo già in mente di fare una staffetta l’anno prossimo, pedalando un’ora per uno. Durante il viaggio mi sono sentito felice, ho fatto tante nuove scoperte, ho provato emozioni, ma poi quando sono tornato a casa mi sono reso davvero conto di quanto sia stata preziosa per me questa esperienza, mi ha lasciato un segno profondo. Chi sta bene non può sapere che cosa significhi per un parkinsoniano lottare e superare i suoi limiti fisici. Pensarlo, dirlo e farlo è stato un cammino unico e speciale, ci ha reso più forti, ci ha dimostrato che possiamo ancora sognare».

© RIPRODUZIONE RISERVATA