Iraq, la Pasqua dei cristiani. Dopo 2000 anni lontani da casa

LA GUERRA. Nel 2003 erano due milioni, ora solo 500 mila. Costretti dai jihadisti a lasciare la piana di Ninive. A Erbil vivono in palazzi abbandonati e container. Con l’attacco a Mosul a rischio in 600 mila. Don Claudio Visconti di Bergamo: «La Caritas Bergamo vicina agli sfollati».

Per la prima volta, da 2000 anni, Lana come centinaia di migliaia di cristiani dell’Iraq non potranno celebrare la Pasqua nelle terre della prima predicazione dei discepoli di Gesù. «Come faccio a cucinare tutte queste cose in un container – domanda guardandosi intorno –? I fornelli sono in corridoio e in comune con tutte le famiglie del piano, per lavare i piatti devo usare i bagni sempre in comune e non abbiamo neppure un tavolo su cui poggiare le pietanze. Ma siamo vivi. Questa Pasqua pregheremo, pregheremo per la pace e per tornare presto a casa. E poi sarà quello che Dio vuole».

Lana vive al secondo piano di un palazzo in costruzione di sette piani trasformato in un campo sfollati informale che accoglie 170 famiglie nel quartiere di Ankawa a Erbil, la capitale dell’omonimo governatorato del Kurdistan in Iraq. Il palazzo è fatto solo di una ossatura in cemento armato senza pareti e protezioni, con enormi balconate, e ora è abitato fino al quarto piano. I piani più alti sono deserti perché è troppo pericoloso per la stabilità dell’edificio occuparli. Nei primi piani sono stati allestiti dei container: ce ne sono una trentina per piano di non più di 15 metri quadrati ciascuno. I bagni e le cucine sono in comune mentre il container funge da stanza da letto e da ricovero di effetti personali. Molte le coperte, che sono servite a superare un inverno freddissimo, ammonticchiate ordinatamente in un angolo. Una cassettiera, i materassi a terra, la televisione.

Un parco giochi con la terra sintetica e uno spaccio di merci danno il benvenuto a quello che oggi è l’«Al-Amal hope center for displaced people of Niniveh», il centro di accoglienza «La speranza» per gli sfollati (nel 99% dei casi cristiani) di Ninive. «Siamo fuggiti senza niente, niente, solo i vestiti che avevamo addosso» raccontano le donne che si avvicinano a Lana sul terrazzo mentre la ragazza, dopo aver dato in braccio il bimbo più piccolo alla vicina, stende i panni lavati su una corda appesa al terrazzo. «Ci hanno detto (quelli dell’Isis ndr) che o ci convertivamo o ci avrebbero ucciso. Siamo fuggiti in bus da Qaraqosh e abbiamo prenotato un hotel – racconta Lavigne, un insegnante sulla cinquantina d’anni, vicina di casa e ora di container di Lana –. Pensavamo di stare via qualche giorno e poi rientrare nelle nostre case. E invece i giorni passavano senza possibilità di ritornare».

«Allora abbiamo affittato un appartamento, dividendo l’affitto con i vecchi vicini – prosegue – ma negli ultimi mesi non ce la facevamo più a sostenere le spese, circa mille dollari al mese. E così siamo arrivati qui e viviamo in otto persone in due container. Io insegno anche qui e il marito di Lana fa la guardia».

Molti degli sfollati sono professionisti o piccoli imprenditori: commercianti, insegnanti, medici. Secondo i dati della Caritas Iraq solo il 9% degli sfollati vive in campi profughi organizzati, mentre il 64% è in casa private di cui il 56% paga un affitto. Per il perdurare della crisi però la situazione di molte famiglie peggiora e sempre più persone hanno bisogno di un container o una casa di fortuna. Erbil in questi mesi è stata ribattezzata «la capitale dei profughi».

Una città nel pieno dell’espansione economica e commerciale, con la vocazione a diventare la seconda Dubai del Medio Oriente, ha accolto almeno un milione e 200 mila profughi, su una popolazione preesistente di un milione di abitanti (praticamente uno sfollato per ogni abitante). I cittadini di Erbil hanno fatto la loro parte mettendo spesso a disposizione dei profughi, in gran parte cristiani, le seconde case. Sono stati profughi anche loro, ai tempi delle persecuzioni curde, e sanno che cosa vuol dire vivere da sfollati e senza radici. «Erbil – spiega Terry Dutto, volontario internazionale Focsiv, che da mesi è a fianco dei profughi di Erbil – è una città in cui il sogno di espansione è stato bruscamente interrotto dalla guerra. Ovunque si vedono palazzi in costruzione, le grandi catene internazionali di ristorazione, le banche, i supermercati come Auchan stavano costruendo qui. È una città ricca grazie al petrolio, ma il calo drastico del prezzo del barile per la svendita di greggio da parte di Isis e Arabia Saudita, l’aumento dei prezzi dei beni di consumo, stanno mettendo in difficoltà anche la popolazione locale prostrata tra l’altro dalle spese per la difesa dei peshmerga».

La zona nuova di Erbil si snoda intorno alle mura circolari della città antica, patrimonio Unesco: questo è il più antico insediamento abitato costantemente al mondo. I cristiani di Erbil parlano ancora l’aramaico, la lingua di Gesù e qui convivono quattro Chiese, di rito latino, cattolico caldeo, armeno cattolico e siro cattolico, che nell’emergenza hanno unito insieme gli sforzi per sopravvivere all’ennesima prova per i cristiani del Medio Oriente. Erano due milioni nel 2003, dopo la caduta di Saddam Hussein, e ora si calcola siano 500 mila. «La nostra Pasqua – dice Lana salutando –? Sarebbe tornare a casa».

La guerra ti fa abituare a tutto, e aggrappare al resto, quel che rimane. Al terzo piano vive la famiglia di Nashmel, anche lei trentenne, marito e due figli. Al piano di sotto ci sono anche il fratello e la madre. La sorella è partita per gli Stati Uniti e anche loro stanno pensando di emigrare: non c’è spazio per i cristiani qui in Iraq. Troppe persecuzioni per troppi anni. «Ecco – dice appoggiando un vassoietto con il thè sul monitor della tv – questo è l’unico ricordo che ho portato via da casa prima di fuggire». Mostra una piccola croce in argento: un rosario di pietre nere. «Non ho altro: così celebreremo Pasqua». Nashmel è arrivata qui dopo essere fuggita da Qaraqosh verso Bagdad, la capitale irachena. «Ma la vita nella capitale è troppo cara – racconta –: mio marito aveva un negozio di calzature a Qaraqosh. Con i risparmi ci siamo mantenuti per un po’ ma non siamo riusciti a trovare un nuovo lavoro. Allora da tre mesi siamo qui in un rifugio di fortuna. Vorremmo tanto tornare a casa, questo è il nostro desiderio più grande, ma abbiamo paura di trovare le nostre case distrutte o occupate. Non sarà più come prima».

L’emergenza Kurdistan non è finita: con l’imminente attacco a Mosul potrebbero esserci altri 600 mila sfollati in cerca di riparo dalla guerra.

L’appello a stare accanto ai cristiani perseguitati in Iraq e Siria, e in generale alla popolazione irachena vittima dello Stato islamico, è arrivato a marzo scorso direttamente da Papa Francesco.

La Cei e la Caritas Italiana, dopo un viaggio del segretario generale monsignor Nunzio Galantino e del direttore nazionale don Francesco Soddu, hanno lanciato subito una serie di iniziative di aiuto volte soprattutto a stringere gemellaggi tra comunità, parrocchie, persone per sostenere famiglie, ma anche la costruzione di case (e container), scuole. A distanza di un anno purtroppo l’emergenza non è ancora finita e ancora una volta è necessario rinnovare uno sforzo collettivo per poter aiutare chi ha bisogno di una casa, seppur temporanea, chi non vuol far perdere l’anno scolastico ai figli sfollati, chi ha bisogno di un sostegno alle famiglie rimaste senza lavoro.

È per questo che si è mobilitata anche la Caritas diocesana bergamasca: «Come segno di vicinanza agli sfollati e ai cristiani perseguitati in Iraq nella zona di Erbil e in Siria nella zona di Aleppo dove opera la Custodia di Terra Santa – spiega don Claudio Visconti, direttore della

Caritas diocesana bergamasca – abbiamo messo a disposizione come Chiesa di Bergamo 100 mila euro e ci auguriamo che in questa Pasqua altri ci aiutino a sostenere la costruzione di case-container per le famiglie di Erbil e di fornire beni di prima necessità ad Aleppo in Siria». La Caritas diocesana, attraverso la Caritas Italiana, ha già contribuito a dare casa almeno a 30 famiglie di Erbil e sostiene padre Ibrahim Sabbagh, francescano e parroco di Aleppo-Azizieh. Info: www.caritasbergamo.it.

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