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Grandi dimissioni e attrattività, 3 su 5 trovano subito un altro lavoro (migliore)

Articolo. Continua la fuga dalle imprese, ma i dati dimostrano che il 60% si ricolloca entro tre mesi. Si affinano le strategie delle imprese per attirare i talenti: bisogni, necessità e prospettive di crescita entrano nell’insieme dei valori e dei benefit offerti. Ecco le regole per un efficace employer branding

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Torna a risuonare, ma con una sorpresa, l’allarme sulle Grandi Dimissioni. Il fenomeno pur non fermandosi affatto, per la prima volta rivela un suo risvolto in parte inaspettato: la grande fuga dal posto di lavoro diventa un nuovo bacino di profili professionali da cui pescare se le imprese sapranno costruire un’efficace strategia per attrarre ma, a questo punto, anche per trattenere i talenti che hanno già hanno al loro interno. Ch se ne va cerca un altro posto, lo cerca migliore e più coerente con le propria scala di valori: atmosfera di lavoro piacevole, equilibrio vita professionale-privata, retribuzione e benefit interessanti, visibilità del percorso di carriera, contenuto del lavoro interessante, formazione e sviluppo professionale.
Un’opportunità per le imprese in cerca di competenze specifiche che non trova sul mercato, di profili specializzati o con un fabbisogno professionale ancora da colmare. C’è un dato finora inedito dentro a questo nuovo richiamo fatto dall’Inps, fra le tante emergenze lanciate ieri, nel presentare il suo XXI rapporto annuale al Parlamento sullo stato di salute della previdenza pubblica
Non solo salari poveri, retribuzioni medie al minimo e con forti disuguaglianze fra uomini e donne a testimoniare che ancora il gap gender continua a crescere: -25% la retribuzione di una donna rispetto alla stessa posizione occupata da un uomo, anche a causa del part time e del lavoro solo per una parte dell’anno. E non solo giovani che con salari di 9 euro lordi l’ora (sono 3,3 milioni i dipendenti che percepiscono meno di 9 euro lordi all’ora, il 23,3% del totale) arriveranno a incassare un assegno di pensione fra 30 anni, quando ne avranno almeno 65 di anni, di 750 euro.

 

Ma c’è un nuovo passaggio cruciale e rivelatore della “fuga” dal posto di lavoro, la cosiddetta great resignation. Fenomeno che l’Inps definisce «non esserci in misura significativa» perché i dati dimostrano che sei persone su dieci, almeno il 60%, si dimette solo per ricollocarsi sul mercato del lavoro, per provare a cambiare la propria posizione lavorativa e per migliorarne le condizioni. E ci riesce, quasi sempre alzando il livello qualitativo della posizione da cui arriva. «Segno di vitalità del mercato del lavoro» sottolinea il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, dato che la grande maggioranza di questi lavoratori si ricolloca entro tre mesi.

La fuga dal posto esiste, ma non preoccupa

Dentro questo mercato, resta tuttavia un dato certo: la fuga esiste ed è costante. Nel 2021 c’è stato un aumento significativo delle dimissioni dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato con quasi 1,1 milioni di casi contro gli 820mila del 2020 e dei 950mila del 2019. Ma all’Inps non si scompongono, e non definiscono affatto “preoccupante” il fenomeno della great resignation di cui si è parlato soprattutto negli Stati Uniti dopo la pandemia. «È soprattutto un segnale – spiegano i ricercatori Inps nella relazione - della riattivazione dei flussi nel mercato del lavoro: il tasso di ricollocazione entro tre mesi è ritornato ai valori registrati nel 2019, tra il 60% e il 70%».

Una nuova dinamica poi, emerge dallo studio, che si accompagna a un’ulteriore prepotente offerta di lavoro da parte delle imprese. L’ultimo studio Excelsior, di stima del fabbisogno di profili per il quinquennio 2022-2026 prevede un’expansion demand dei dipendenti dei settori privati fra le 945mila e l’1,3 milioni di posti di lavoro. Sarà l’industria, sotto la spinta delle due transizioni, digitale ed energetica soprattutto, a esprimere una richiesta di lavoratori stimata tra 293mila e 438mila unità e i servizi tra 976mila e 1,2 milioni di occupati.

 

È il trend tecnologico e in particolare l’impulso alla digitalizzazione, già accelerato durante l’emergenza sanitaria, a rendere sempre più necessarie e ricercate, a tutti i livelli industriali e delle funzioni aziendali, le competenze digitali, oltre a determinare un aumento della domanda delle figure professionali specifiche del settore: l’occupazione è data in fortissima crescita nella filiera dell’informatica e telecomunicazioni (fra un +1,8% e un + 2,1% annuo), ma anche nella consulenza (+1,5-+1,9%). Le rilevazioni di Unioncamere danno al 63% la difficoltà delle imprese a trovare profili informatici, che arriva all’86% nel caso di laureati con esperienza: le aziende non perdono occasione per rilevare che di queste figure specialistiche in informatica ne servirebbero almeno dieci volte tanto.

Le ricadute sui design delle future imprese

Sono tutti settori che includono numerose attività che possono essere svolte da remoto, spesso in smart working e che da una parte hanno avuto un minor impatto dalla crisi. E dall’altra stanno sperimentando un maggior incremento di produttività derivante dal grande cambiamento che si è verificato nell’organizzazione del lavoro. Ed è qui si tocca un ulteriore nervo ancora scoperto che ci riporta al tema – ma forse più al timore - delle grandi dimissioni.
La nuova organizzazione del lavoro, oltre che per funzioni operative interne all’azienda, ora rispecchia una nuova esigenza strutturale nei rapporti con le altre imprese o con il proprio ecosistema industriale, la ridefinizione delle catene di approvigionamento e, a sua volta, di fornitura. Le supply chain sono piombate necessariamente al centro di nuove strategie che coinvolgono anche gli obiettivi di crescita dimensionale delle imprese, le acquisizioni o le fusioni in una prospettiva di costruzione di catene più corte ma più protette da eventuali rischi di interruzione.

 

Ma occorrono anche qui le competenze specifiche quando si ridisegnano le filiere. Lo studio pubblicato da Eversheds Sutherland, ha sottolineato come nelle operazioni di acquisizione, il 72% dei leader aziendali è preoccupato su come trattenere i talenti e che questo obiettivo è una priorità strategica. E che diventi sempre più un’emergenza da colmare tanto da trasformarla in un’opportunità reale per trattenere, prima, e poi attrarre nuove competenze e nuovi talenti, dipenda molto da quanto le imprese sono pronte e capaci nel mettere a punto strategie efficaci di employer branding. Su due fronti almeno. Interno, per coinvolgere e fidelizzare maggiormente le persone che già lavorano nell’azienda. L’analisi Astra Ricerche, presentata la settimana scorsa nell’ambito di una Motivation Night a Milano ha messo in evidenza il crollo della motivazione al lavoro negli ultimi cinque anni. Non solo: il 30% dei lavoratori vuole andarsene nei prossimi tre anni, quasi uno su due di questi ha 24 anni (è la quota più alta dei demotivati) e lamenta un malessere legato a una forte incoerenza fra capacità personali e mansioni assegnate (il 68%).

L’attrattività è il discrimine per i talenti

E poi c’è fronte interno di una strategia di attrattività: attività per favorire l’attraction e l’acquisizione dei talenti, potenziali candidati ad essere assunti. L’ultimo Workmonitor di Randstad indica con molta precisione la direzione verso cui puntare le strategie aziendali. «Il primo dato: le giovani generazioni mettono in discussione le tradizionali relazioni con i datori di lavoro. E fra le nuove caratteristiche di questo approccio - spiega Marco Ceresa, Group Ceo Randstad - emergono istanze non negoziabili e che danno priorità, dopo la retribuzione e la sicurezza del posto, alla realizzazione personale, senza avere dubbi sulla possibilità di rinunciare se quel posto non li soddisfa».

Capacità di attrarre, a questo punto, diventa strategico. Sono fronti di attività su cui consolidare strategie di employer branding – sottolineano gli esperti di Randstad nella loro ultima guida rivolta alle aziende – in un mercato del lavoro sempre più caratterizzato da scarsità di risorse e competenze qualificate. La grande differenza la fa la capacità di accrescere la visibilità dell’impresa, posizionandola nel confronto con tutte le altre come “datore di lavoro ideale”».

 

L’efficacia di una strategia di attrattività (employer brand) si misura anche e soprattutto in termini di costi economici. Non far conoscere all’esterno i propri valori aziendali, non comunicare la propria reputazione costruita sulla qualità delle proposte e sulle risposte ai desideri, ai bisogni e alle aspettative di chi si vorrebbe intercettare, a cominciare dai giovani talenti, fa salire del 10% almeno il costo di ogni singola assunzione: significa maggiore sforzo e impegno di ricerca, tempi lunghi di selezione e di assunzione fino al costo di inserimento su cui pesano anche i costi più difficilmente tangibili legati all’uscita di una persona. Ma secondo lo studio Randstad gli stessi costi si riducono del 50% per quelle imprese che invece hanno saputo mettere in campo un forte employer brand. Così come, sempre per queste aziende più attente alla capacità attrattiva, scende al 28% il turnover del personale.

Il posto migliore c’è con le giuste competenze

E non è da poco questo dato, visto che più di nove lavoratori su dieci (il 91%, in particolare fra i più giovani) sono pronti a cambiare posto «se gli venisse offerto un ruolo in un’azienda con un’eccellente reputazione». Reputazione positiva che significa, per un talento, maggiore disponibilità a «scendere allo scambio» con l’azienda fra le proprie competenze, il proprio tempo, dedizione e attenzione contro non solo a uno stipendio, ma anche a un contesto che lo soddisfa anche come visione e prospettiva.

«È in atto un chiaro cambiamento di potere, dovuto al fatto che le persone riconsiderano le proprie priorità – spiega Marco Ceresa -. Le aziende devono riesaminare il loro approccio all’attrazione e alla fidelizzazione del personale, o dovranno affrontare una seria concorrenza”. E guardando alle imprese concorrenti per capire se ne vale la pena di spiccare il volo dalla propria azienda, i giovani talenti, ma non più solo loro, guardano ad almeno due fattori prioritari sugli altri. Non è più esclusivamente il livello di stipendio (che resta importante per il 61%) a far decidere. Ma prioritari sono il tema della crescita professionale (65%), e della riqualificazione e aggiornamento delle competenze nell’80% dei casi. Poi a seguire il resto, sempre comunque centrali nella capacità di attrarre o trattenere le risorse umane ed essere scelto come datore di lavoro. Sono gli elementi che contribuiscono a creare l’immagine di un’azienda come «great place to work»:

  • 1 - un’atmosfera di lavoro piacevole (65%)
  • 2 - un giusto equilibrio fra vita lavorativa e privata (65%)
  • 3 - retribuzioni e benefit interessanti (61%)
  • 4 - sicurezza del posto di lavoro (58%)
  • 5 - visibilità del percorso di carriera (54%)
 

Costruire un’efficace strategia di employer branding significa seguire un percorso ben preciso. E siccome l’obiettivo è dare delle risposte attese, il primo passo è comprendere le domande. In questo caso si parla di bisogni, di desideri, di aspettative.

Non è una strategia da social, ma a lungo termine

In questo senso gli analisti di Randstad parlano di «strategia credibile e interessante per massimizzare la proposta di valore e l’effetto sull’attrattività che viene esercitata sul lavoratore».Cercando o meglio ancora rimuovendo falsi approcci come il confondere una strategia di employer branding con una campagna sui social network.
«No, si tratta di una strategia a lungo termine, che segue un piano almeno triennale per anticipare i bisogni dei dipendenti e ha una visione chiara. E come ogni strategia di successo – spiegano gli analisti di Randstad – la possibilità di successo è più alta se l’intero team aziendale è coinvolto e sostiene il programma».Altro punto chiave di una efficace strategia di attrattività è sapere analizzare costantemente i risultati, ottimizzare le proposte significa proprio verificare sempre i risultati raggiunti e i riscontri ricevuti.

Non sono casi isolati, infatti, le situazioni in cui le aziende scoprono e si rendano conto di quanto sia grande il gap fra le proprie strategie di attrattività e gli obiettivi che si intendono raggiungere. «Una differenza spesso legata al semplice fatto che in azienda manca un vero e proprio responsabile di strategie di employer branding – spiegano da Randstad -. Non è un dettaglio da poco, proprio perché questa strategia va coordinata dal Ceo aziendale a tutti i livelli dell’impresa».
Ma è la capacità di massimizzare l’effetto sull’attrattività dei talenti e sull’engagement del personale che diventano i reali elementi strategici per arricchirsi di nuove e vecchie competenze. E questo succede quando un’impresa si mette all’ascolto delle sue persone, partendo dai bisogni e desideri. E andando incontro a loro con risposte personalizzate.