Niente calcio: anche nella vita del prof. Caudano dominano i tristi fatti di questi giorni. E lui sfodera una grande lezione

storia. Il racconto di Stefano Corsi

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Fine settimana senza Atalanta, lo scorso. Al professor Caudano manca, l’Atalanta, quando non gioca. Mancava anche quando aveva la scuola a riempirgli le ore, con i pacchi di compiti da correggere. Figurarsi ora, che deve tenere due lezioni serali a settimana e il resto è tempo libero… Domenica mattina, si ripete lo schema della settimana precedente. Il barista Claudio lo invita alla passeggiata delle dieci con un paio di amici, ed Elvio accetta. “Arriviamo a Belvedere, giro tranquillissimo”. Belvedere è Belvedere Langhe, un paese vicino a Murazzano. Strada asfaltata. Niente di che. Partono alle dieci e parlano di calcio. La Nazionale, il campionato, per dovere d’ospitalità l’Atalanta. “Si ricorda, professore, quando Doni andò ai Mondiali? Avrebbe mai detto che sarebbero arrivati anni in cui gli atalantini convocati sarebbero stati diversi, e in Nazionali diverse?”. Il professore sorride: “No, non lo avrei detto mai. Ricordo bene di Doni, lo convocò il Trap. E lui giocò pure un’oretta di partita, contro l’Ecuador. Mi pare che lo sostituì Di Livio. Ma fu una spedizione sfortunata. Certo, ora è diverso. Pašalic ha giocato una semifinale mondiale, addirittura…”. Non lo conoscono bene, i compagni di passeggiata. Ma capiscono che il loro nuovo amico ha la testa da un’altra parte. Che ha altri pensieri. Che ha risposto per educazione ma che non sono Doni e Pašalic il centro della sua preoccupazione.

Infatti.

A un certo punto il discorso, fatalmente, scivola sul fatto di cronaca che ha riempito tutta la settimana: i due universitari veneti scomparsi. Giulia è stata trovata il giorno prima, e Filippo è in fuga chissà dove.

Quando gli altri iniziano a discuterne, il professor Caudano si fa improvvisamente attento, anche il linguaggio del corpo tradisce la sua ansia di intervenire. Finché non sa più tacere, quando Claudio, volutamente, tira in ballo la scuola e le ventilate ore di “Educazione all’affettività”.

Elvio lo guarda, scuote il capo e poi prende a parlare lentamente, soppesando le parole.

Gli altri si fermano e ascoltano, sorpresi.

“Vede, Claudio, il problema è complesso e io temo che potrà poco, qualche ora di Educazione all’affettività, così come può poco attualmente l’Educazione civica che in fondo abborracciamo. Anzitutto, c’è un problema di competenza. Io sono un laureato in Lettere classiche, ho firmato un contratto con l’istituzione scolastica per spiegare l’ablativo assoluto e Dante, non l’affettività. O l’affettività, magari, ma attraverso la letteratura. Certo che mostrare come la donna è rappresentata in Dante, in Petrarca o in Gozzano offre termini di confronto significativi alla riflessione dei ragazzi, anche sull’affettività. Ma un conto è passare attraverso la letteratura, che ho studiato; un conto sarebbe improvvisarmi psicologo. Senza contare che i casi della vita mi hanno condotto ad essere un uomo solo, senza esperienza specifica…”.

“Però, mi scusi, lei è un insegnante, e un insegnante è anche un educatore”, obietta uno del gruppo, non molto cordiale.

“Certo”, riprende Elvio senza alterare né ritmo né decibel del suo dire, “un insegnante è anche un educatore. Ma proprio qui viene il punto. Il vero educatore non parla di tutto, parla di ciò che sa. Ed educa parlando di ciò che sa e lavorando intorno a ciò che sa. Ed è su questo che, secondo me, da anni, noi insegnanti siamo totalmente deficitari. Mi spiego. Non è che siamo deficitari nello spiegare le nostre discipline, o almeno la maggior parte di noi non credo lo sia. La mia impressione è che manchiamo tragicamente nel momento della valutazione. Quando dobbiamo esprimere come i ragazzi hanno appreso ciò che noi sappiamo e insegniamo. Per una situazione esterna alla scuola che pian piano si è venuta a creare, sempre più percepiamo che l’insufficienza è ricevuta come una ragione di allarme intollerabile, come un fallimento inaccettabile. Fallimento dell’istituzione agli occhi dei nostri superiori, dai dirigenti su per li rami, che infatti ci esortano continuamente alla clemenza e si inventano ogni forma di apparente recupero; e fallimento del ragazzo e di sé medesimo agli occhi della famiglia. Con il risultato che poi i nostri alunni vivono con estrema ansia e agitazione il momento della prova, e che noi edulcoriamo il più possibile i verdetti. La scuola dovrebbe invece essere un luogo di verità, che ti dice senza infingimenti quanto vale il tuo lavoro e quanto sei preparato, e che poi ti segue nel tuo tentativo di migliorarti. Invece, da tempo la scuola è diventata un luogo dove a nessuno si può dire che non è in grado di fare alcune cose e che per diventarlo, sempre che possa, deve compiere un lavoro su se stesso. Dopodiché, ma non voglio fare il sociologo da strapazzo, la mia paura è che ragazzi che non sanno accettare un cinque, o che si vedono dare comunque dei sei generosi, non essendo abituati all’insuccesso, quando prendono l’insufficienza della ragazza che li lascia e lasciandoli segnala una loro inadeguatezza, foss’anche soltanto rispetto alle sue proprie soggettive esigenze, non hanno gli strumenti per reggere, e franano. Disavvezzi ai quattro che la scuola infligge sempre meno, perdono il senno davanti a quello che il parlar comune forse non per caso chiama il due (di picche) della ragazza che li rifiuta. La scuola non dovrebbe sperare che li aiuterà con un’ora di Educazione all’affettività o simili. Io credo che li aiuterebbe molto di più tornando a valutarli secondo verità e riprendendo a dire anche dei no”.

“Ma quell’ora male non farebbe”, osa Claudio.

“No, certo. Specie se affidata a degli esperti. Purché non sia un modo di tacitarsi la coscienza: che la società non dica che tanto ci sta pensando la scuola. Anche perché, in realtà, sarebbe utile che ci interrogassimo sul tipo di narrazione da cui i ragazzi sono bombardati fuori dalla scuola, circa il modo di trattare le donne. E intendo dire in famiglia, nelle canzoni, nei film, nelle serie, in rete… Dove domina un maschilismo culturale strisciante e ancora prevalente. Perché, naturalmente, la protettività della scuola riguarda anche le ragazze, le quali poi non mettono mano al coltello: evidentemente, sui maschi lavorano anche altre forze, per così dire. Il mio timore, in ogni caso, è che si chieda alla scuola di fare ciò che non fa nessun altro, salvo poi accusarla se ciò che fa non basta. Dico un’ultima cosa. Quando ero ragazzino, sentii da un catechista dell’oratorio che voler bene significa volere il bene dell’altro. Magari, è una banalità, ma io non l’ho più dimenticata, e nella mia pur stenta vita sentimentale l’ho sempre applicata: una volta sono stato lasciato e diverse volte non ricambiato, e sempre il mio giudizio finale era che non potevo che accettare, perché, se volevo bene a quella persona, la prima cosa che dovevo fare era rispettarne la libertà e il percorso lontano da me che la sua libertà le indicava. Magari mandavo una lettera, come estremo tentativo, poi facevo un passo indietro. Oggi, che volere bene a qualcuno è volere il suo bene, e quindi non considerarlo un possesso inalienabile, ai ragazzi qualcuno lo dice?”.

Tacciono tutti. Il professore chiude: “Scusate, se sono scivolato nel personale e se ho parlato così a lungo e così accoratamente su questo tema. Forse è meglio se torniamo a Pašalić…”.

Claudio guarda lo smartphone e annuncia che Filippo è stato arrestato in Germania.

Nessuno commenta, tranne il tipo intervenuto prima: “Forse, sarebbe stato meglio se si fosse ucciso”.

Nel sole della tarda mattinata di novembre, da Belvedere, la Langa è bellissima. La luce che la illumina contrasta con il buio dei cuori.

Tornando, il professor Caudano osa parlare di calcio, del Napoli che arriverà a Bergamo, di Mazzarri, di Gasperini. Vorrebbe scacciare il dolore che gli opprime il cuore. A nessuno lo ha detto, ma in fondo si sente in colpa per non essere più a scuola. Magari, con il pretesto di una poesia, avrebbe potuto dirlo, nelle sue classi, che voler bene a qualcuno è volere il suo bene e non volerlo accanto a sé per forza.