Il prof. Caudano e il triste ritiro di «Caldara dell’Atalanta», che può insegnare qualcosa a tutti

storia. Il nuovo racconto di Stefano Corsi

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N on l’ha letta subito, il professor Caudano, la lettera con cui Mattia Caldara ha salutato il calcio. E non per mancanza di interesse, bensì per eccesso di affetto. E rabbia. Ora che il “novennato” si è concluso, con le sue tantissime luci e le sue poche e inevitabili ombre, e vanta come emblema la coppa rapinosamente portata da un prato di Dublino al cielo di Bergamo; ora che siamo già al secondo allenatore in pochi mesi, perché peso e vuoto sono difficili rispettivamente da reggere e da colmare; ora che le sue password gli paiono la cara archeologia onomastica di un tempo irripetibile (Ilpapu@10, Gasperini#9, Miranchuk@1), il saluto di Caldara gli è parso troppo. Uno sfregio ulteriore e ingiusto. Perché lui a Caldara ha voluto bene come, essendo tifosi sentimentali, si può voler bene a un ragazzo del vivaio che arriva in prima squadra ed è esempio di educazione, eleganza, classe e bravura. “Il nuovo Scirea”, mormoravano gli innamorati di paragoni, genere non molto amato dal buon Elvio, in questo fedele seguace del plumbeo Guicciardini, che sconsigliava di confrontare epoche e situazioni storiche diverse in un suo “ricordo” caro al professore che fu, testo certamente ostile a Machiavelli e alla sua mania di citare l’esempio di Roma antica (“Quanto si ingannono coloro che a ogni parola allegano e Romani! Bisognerebbe avere una città condizionata come era loro, e poi governarsi secondo quello esemplo; el quale a chi ha le qualità disproporzionate è tanto disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino facessi el corso di uno cavallo”).